Oggi si riunisce a Bruxelles l’Ecofin. Si parlerà, senza dubbio, non solo del riassetto del debito della Grecia, ma anche e soprattutto dei tempi di ratifica del “Fiscal Compact”. Gli Stati che più hanno promosso e sponsorizzato il nuovo trattato premono perché 12 Stati dell’eurozona completino al più presto le procedure di ratifica e l’accordo sia nelle condizioni per poter entrare in vigore.

L’Italia deve evitare di essere, anche questa volta (come in altre vicende europee), il Pierino della situazione – ossia colui che ratifica il “Compact” in tempi stretti e senza un adeguato dibattito in Parlamento e nel Paese. Se ben ricordo, l’ultimo confronto serio e duro in materie europee avvenne nel 1978 in occasione della ratifica degli accordi di cambio (lo Sme), quando l’opposizione alzò le barricate (a mio avviso sbagliando nel merito, ma facendo riflettere l’opinione pubblica sulle implicazioni e dando giustizia all’importanza dell’atto). Il Trattato di Maastricht venne ratificato in meno di tre settimane, con una discussione parlamentare inesistente e senza alcun confronto nell’opinione pubblica.

Volevamo sfoggiare il nostro iper-europeismo, sapendo già, però, che non avremmo rispettato l’accordo. Tanto che, come documentato in “Temi di Discussione” n. 334 del servizio studi della Banca d’Italia, pochi mesi dopo la ratifica del Trattato, il Governo Ciampi mise in atto “una pausa” nella politica di risanamento dei conti pubblici (si avvicinavano le elezioni ed erano note le preferenze del Governo “tecnico” dell’epoca). La pausa turbò i mercati – sempre secondo il documento citato, mai smentito in oltre dieci anni dalla pubblicazione – e rese più oneroso il costo sociale complessivo del raggiungimento degli obiettivi di Maastricht.

Un confronto nel Paese sul “Fiscal Compact” è ancora più necessario di quanto sarebbe stato uno sulla ratifica del Trattato di Maastricht poiché il “Compact” del 2012 è molto più specifico del Trattato di vent’anni fa in tema di obblighi in capo all’Italia. In particolare, ove non interverranno “circostanze eccezionali” e altri “fattori rilevanti”, ci siamo impegnati a una strategia deflazionistica sino a quando il rapporto tra stock di debito e Pil non avrà raggiunto il 60% (rispetto al 120% di questi giorni). Una ratifica affrettata (come quella del Trattato di Maastricht) potrebbe dare a intendere che stiamo ancora una volta facendo “i furbetti del quartierino”, dando prova di iper-europeismo pur essendo certi di non osservare il “Compact”, trincerandoci dietro eccezioni e attenuanti. O, ancor peggio, che una élite tecnocratica a termine non ha il supporto della grande maggioranza degli italiani (a cui si chiedono forti sacrifici).

Ciò è tanto più necessario in quanto, nonostante gli sforzi mediatici, la politica estera non sembra essere, di questi tempi, il nostro forte. Nella trattativa del “Compact” abbiamo ottenuto poco o nulla. Nella vicenda (peraltro piuttosto oscura) dei nostri “marò” in prigione nello Stato del Kerala, da due settimane un Sottosegretario è in missione, svolgendo compiti normalmente affidati a un Console, e non pare che si riesca a tirar fuori un ragno buco. In quella ancora più inquietante del blitz britannico in Sudan, solo il Capo dello Stato ha, correttamente, fatto sentire la propria voce, mentre l’Italia ha subito un affronto ben peggiore di quello che abbiamo evitato a Sigonella.

Nessuna di queste sconfitte è da attribuirsi a questo o quell’individuo. Nel resto del mondo, però, un Governo privo di base elettorale e sostenuto da una mini-coalizione sempre in bilico conta meno di quanto paiono dire alcune apparenze enfatizzate dai media. I nostri partner lo sanno. E c’è il rischio che non ci prendano sul serio senza una vera disanima nel Paese sul “Fiscal Compact” e le sue ramificazioni per tutti gli italiani, specialmente i più deboli.