Per la prima volta dopo 41 settimane gli analisti finanziari hanno assegnato più promozioni che bocciature alle grandi società quotate in Europa, Usa e Giappone. La Federal Reserve, intanto, prende atto che il sistema bancario americano gode finalmente di buona salute, dopo tanto penare. Anche dall’Europa arrivano dati meno inquietanti del previsto a partire dalla Germania: segno che il ricostituente a suon di miliardi prescritto da Mario Draghi ha fatto un gran piacere a padroni e padroncini tedeschi, che non sono disposti a rallentare il ritmo per far piacere ai sacerdoti dell’ortodossia della Bundesbank. Il mondo, insomma, non è in zona di sicurezza, ma fa meno paura di qualche mese fa.



L’Italia, poi, scala le classifiche dell’hit parade del gradimento. Ultima conferma l’elogio di ieri della Bce; prima ancora la versione “morbida” di frau Merkel nella recente visita romana. Merito, ovvio, di Mario Monti: poco più di 100 giorni fa era semplicemente il “genero ideale”, secondo la definizione di un quotidiano tedesco, quasi a sottolineare il ruolo importante ma subalterno del Bel Paese nel concerto dell’Europa che conta. Oggi, The Economist incorona il premier quale il novello Coriolano, cioè l’eroe schivo che nell’ora del bisogno salva la patria abbandonando l’orto di casa. L’unica differenza è che, stavolta, Coriolano non deve tornare a casa. Speriamo, scrive l’editorialista del settimanale, che l’Italia se lo tenga stretto. Magari come successore di Giorgio Napolitano. Altrimenti, chi meglio di lui come presidente della Ue o dell’Eurogruppo, come chiede anche Le Monde?



Insomma, la congiuntura internazionale e la ritrovata reputazione italiana contribuiscono a creare un clima unico, quasi inedito, per tentare una grande riforma del mercato del lavoro. Della materia si è cominciato a parlare in un momento di emergenza, quando la cosa più importante, a gli occhi dell’opinione pubblica, era sfoggiare “sacrifici” per superare la diffidenza dei mercati e dei partner comunitari. Non a caso, nell’immaginario collettivo, prevale l’immagine di una riforma che rende più facile licenziare in cambio di “promesse” che tanto non verranno mantenute. Meglio tenersi strette le “conquiste” del passato, anche quando rischiano di soffocare i più deboli e di lasciar fuori dall’uscio l’esercito dei non garantiti. Oppure, continuare a scaricare sulle spalle dello Stato prepensionamenti di lavoratori lontani dalla soglia di anzianità.



Forse, però, sarebbe il caso di “pensare positivo”. Oggi, infatti, ci sono le condizioni per innescare un circolo virtuoso. Per carità, non si rimuovono le cause che sconsigliano gli investimenti (delle multinazionali, ma anche delle imprese italiane) nel giro di settimane: l’economia non ha i tempi e la reattività dei mercati finanziari. Inoltre, a complicare la vita di chi investe in Italia contribuisce ancor di più la resistenza della burocrazia e l’incertezza del diritto, per non citare l’incognita della malavita.

Ma l’Italia che, nel giro di poche settimane, ha approvato la riforma previdenziale più severa del mondo avanzato e realizzato un avanzo primario che fa invidia a Olanda e ad altri primi della classe, ha un’occasione unica per rilanciare in maniera decisiva la propria immagine. E per richiamare l’attenzione dei capitali internazionali. L’importante è che il mondo percepisca che, finalmente, invece di accapigliarsi su questioni ideologiche (che nascondono interessi ben concreti) si voglia finalmente affrontare i nodi reali, a partire dalla produttività, che è il vero problema dell’economia italiana.

La riforma dell’apprendistato, la modifica dell’articolo 18, la fine delle distinzioni artificiose tra piccole industrie (sottratte alla disciplina più rigida) e le medie e grandi imprese rappresentano un’occasione preziosa, forse l’ultima, per non perdere il tram della ripresina internazionale. E, non meno importante, per fornire una qualche prospettiva ai giovani e alle donne, l’unica vera risorsa per il nostro futuro che oggi è, al contrario, il macigno che pesa sulla fiducia delle famiglie e sui consumi.

Il dibattito sul mercato del lavoro, per lo più, si è sottratto al confronto necessario con la congiuntura e le prospettive future dell’economia globale. Si è molto parlato di “diritti”, come se questi ultimi fossero una variabile indipendente e intangibile nel tempo, una sorta di tavole scolpite nella roccia e non il frutto storico di risultati raggiunti con il sudore della fronte e che solo il sudore della fronte può tutelare. Si è molto parlato di politica: il Pd alla ricerca di una soluzione per non sconfessare né Monti, né la Cgil; la stessa Cgil alla ricerca di una formula che permetta di non rompere con la Fiom; Cisl e Uil preoccupate per un metodo che mette in cantina la concertazione ed il ruolo dominante (anche troppo) delle confederazioni. Insomma, si è parlato di molte cose, a partire dalla “paccata di miliardi” evocata dal ministro Fornero, immagine infelice per sostenere una cosa di assoluto buonsenso: inutile elaborare un progetto finanziario comunque complesso se non si è d’accordo sui principi.

Ma non si è parlato, al contrario, delle opportunità e dei limiti del sistema Italia in un momento di “ripresina” internazionale. Eppure, come ha scritto giustamente Fulvio Coltorti, il promotore dell’ufficio studi di Mediobanca, il problema della nostra economia non sta nel costo del lavoro quindi, di riflesso, nei sacrifici in busta paga. Sta nella produttività che, come ci insegna Gian Mario Gros-Pietro, è legata anche (se non soprattutto) alle dimensioni dell’impresa, precondizione necessaria per avere un rapporto più maturo con il mondo del credito, liberando le piccole imprese dalla mannaia del fido a revoca. Sta nella capacità, che solo imprese di una certa dimensione possono avere, per poter competere nei grandi progetti urbani dei Paesi emergenti, senza doversi accontentare delle briciole elargite ai subfornitori di secondo e terzo livello.

È un’occasione per liberare gli “animal spirits” dei nostri imprenditori, che di certo non hanno brillato per inventiva e investimenti nel prodotto in questi anni, salvo lodevoli eccezioni. Non è tanto importante che sulla Ducati sventoli la bandierina tricolore, come si augura Il Corriere della Sera. Meglio la competenza che il passaporto: del resto, i migliori imprenditori italiani (compresi Brembo e Mapei, cioè le aziende dei candidati alla Confindustria) investono per lo più fuori confine per ragioni di mercato. Ma si tratta di spingere le imprese a rischiare e far finalmente qualcosa di nuovo oltre che lamentarsi con il governo senza però rinunciare alla pioggia di esenzioni e contributi a vario titolo. O facendo muro, ancor più del sindacato, alle riforme quando toccano le loro tasche.

Leggi anche

I NUMERI/ Il nuovo legame tra occupazione ed economia che la politica non vedePIL E LAVORO/ Le macerie dietro i dati in miglioramentoPIL E LAVORO/ L'alternativa a rivoluzioni e "vaffa" per la ripartenza dell'Italia