Il primo ministro, Mario Monti, riceve e si incontra a Palazzo Chigi con l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. In momenti come questi, dove ci sono voci insistenti di un’uscita dall’Italia della Fiat, dove si parla di una posizione contrastante del manager dal pullover blu rispetto alla linea italiana delle relazioni industriali, l’incontro suscita speranze e lascia intravedere nuovi scenari. La Fiat non va ancora bene, perde quote di mercato, ma l’avventura americana con Chrysler resta un “fiore all’occhiello”. C’è anche da considerare la capacità manovriera di Marchionne, che è quella dì un manager degli anni Duemila, nato in Italia, ma di fatto, per formazione e cultura, un “americano”, un manager abituato a parlare con sindacalisti duri, in una trattativa aziendale, ma non antagonisti. Ieri Marchionne ha portato la nuova Panda a Monti. Forse solo un dettaglio, forse la prova che la Fiat non ha affatto intenzione di lasciare l’Italia e una parte della sua linea tradizionale di mercato. Al termine dell’incontro, Monti non ha fatto commenti, Marchionne si è limitato a dire “Tutto ok, incontro perfetto”. Ma non è difficile immaginare che il vertice abbia riguardato il ruolo della Fiat in Italia e magari, mentre si parla di riforma del mercato del lavoro, di un cambiamento delle relazioni industriali. Giorgio Benvenuto, ex segretario generale della Uil, un uomo che è stato un grande protagonista nella storia del sindacato italiano, commenta questo incontro, cercando di interpretare lo scopo e soprattutto le intenzioni di Marchionne.
Benvenuto, che fa Marchionne? Lascia l’Italia con la Fiat, oppure resta?
Io dico e affermo che rimane, che la Fiat non dismette i suoi stabilimenti e il suo collegamento radicato con l’Italia. Probabilmente noi tutti non abbiamo avuto un approccio realistico con Sergio Marchionne. È un manager moderno, un americano, con grandi capacità di manovra e, in questo momento, parte da posizioni di forza, superiori, se mi è concesso dirlo, a quelle che aveva Gianni Agnelli.
In che senso?
Agnelli aveva una casa a New York, parlava con Kissinger, ma il suo mondo era Torino, la fabbrica di famiglia, Roma, la politica di cui si interessava e di cui era appassionato. Probabilmente, e giustamente, si sentiva un “padre nobile” dell’Italia e quindi non avrebbe mai potuto mettere in discussione la permanenza della Fiat in Italia. Non avrebbe mai potuto dirlo. Tutto questo, con l’andamento altalenante dell’azienda, riduceva i suoi margini di manovra. Marchionne questo può permettersi di farlo. Ma è una carta di trattativa. La scelta, a mio parere, è che la Fiat avrà sempre il cuore in Italia, resterà qui, pur in una trattativa con un manager di carattere internazionale.
Forse sono i sindacati di oggi a non comprendere questa strategia o tattica di Marchionne, anche con tratti spregiudicati, ma diretti allo scopo.
È probabile. Di sicuro Marchionne è legato a idee semplici e lineari. Di fronte al mondo italiano, piuttosto barocco, spesse volte non riesce a capire o non ha voglia di capire. Non riesce a comprendere i vari livelli di contrattazione. È pronto, come qualsiasi manager americano allo scontro duro e diretto con i sindacati in fabbrica, ma il resto gli è estraneo. Io ricordo, quando ero giovane, di aver studiato con i sindacalisti americani dell’automobile. Sindacalisti durissimi nella trattativa, ma ben intenzionati a non compromettere mai l’interesse dell’azienda. Insomma, un sindacato duro, pronto a scioperi e a lotte durissime, ma mai antagonista dell’interesse dell’azienda.
Scusi Benvenuto, ma per Marchionne c’è un problema in più. La Fiat è uscita da Confindustria, contestando chiaramente le relazioni industriali di stampo italiano. Si dice che il nuovo presidente sarà Giorgio Squinzi, il candidato alternativo a quello di Marchionne, che tutti identificavano in Alberto Bombassei.
Ritengo anch’io che sarà Squinzi a vincere la partita. Tutti me ne parlano molto bene ed è stimato da molti imprenditori. Bene, io penso che Squinzi riporterà Marchionne e la Fiat in Confindustria. Lavorerà per questo e ricomporrà lo strappo. Non sembri un controsenso. Squinzi è appoggiato da Emma Marcegaglia, che ha subito lo strappo di Marchionne e della Fiat. Ma io ritengo che, così come Marcegaglia ha adottato una linea diversa dal suo predecessore che la sosteneva, Luca Cordero di Montezemolo, così Squinzi innoverà e adotterà una linea diversa da quella di Emma Marcegaglia che sostiene Squinzi apertamente.
Il nodo principale della questione sembra la centralità del contratto aziendale, quello che, secondo molti, è in grado di recuperare produttività nelle aziende. Lei che ne pensa?
Penso che il contratto nazionale nel nuovo mondo globalizzato sia invecchiato, abbia perso la sua rilevanza. E di questo occorre che se ne prenda atto. In questo momento una difesa a oltranza del contratto nazionale non regge più. Del resto, devo dire che il contratto aziendale, proprio in Fiat, degli anni Sessanta è ancora ricordato oggi dai “vecchi” operai. Certo, bisogna tenere conto anche delle vecchie discriminazioni sindacali, che esistevano e che non credo che si possano ripetere. Ma il peso oggettivo di quel contratto era buono, per salari, stipendi, una sorta di welfare aziendale che esisteva sotto varie forme. Si tratta di puntare al contratto aziendale con le garanzie necessarie, senza che ci siano discriminazioni nuove. Ma è questo il contratto che oggi è più importante, anche per la vicinanza tra rappresentanti sindacati e lavoratori dell’azienda. Oggi il contratto nazionale non riesce più ad accogliere determinate esigenze delle singole aziende.
(Gianluigi Da Rold)