Il settimanale britannico The Economist dedica la copertina e l’articolo di fondo a un tema, per molti aspetti, inatteso: i primi segni di ripresa mondiale. In effetti, tali segni cominciano a percepirsi: a) negli Stati Uniti è in corso un aumento e dell’occupazione e dei consumi; b) nella zona dell’euro spira aria di soddisfazione, ove non di bonaccia, in quanto si è sostituita con un’insolvenza coordinata un’insolvenza disordinata che avrebbe potuto contagiare il resto del continente; c) i mercati borsistici internazionali sembrano respirare profumo di recupero (l’indice mondiale di Morgan Stanley è aumentato del 9% dall’inizio dell’anno e del 20% dal punto di svolta inferiore toccato lo scorso ottobre; d) il rallentamento della caotica crescita cinese, e il disavanzo dei conti con l’estero della Repubblica Popolare, possono essere letti come l’inizio del riequilibrio dell’economia internazionale (senza che ci fosse un accordo politico come il Plaza Agreement del 1985); e) gli aumenti degli indici dei corsi delle materie prime (dalle derrate, ai metalli ferrosi, al petrolio) suggeriscono che sul mercato dei futures (le materie prime vengono vendute e comprate a termine o tramite opzioni più o meno complesse) si scommette su incrementi della produzione, dei redditi, dei consumi e degli investimenti per il 2013.



A un’analisi attenta delle statistiche (non solo quelle riprodotte nelle ultime pagine di The Economist ma anche le stime dei 20 maggiori istituti econometrici internazionali, tutti privati) si percepisce che i segni di recovery sono meno robusti di quanto possono sembrare a una lettura frettolosa: a) negli Stati Uniti si è soliti allentare i freni monetari e di bilancio in un anno elettorale; b) il nodo della Grecia non è del tutto risolto e si avvertono tensioni sui mercati di Portogallo e Spagna; c) Borse e materie prime tendono a essere eccessivamente reattive sia in rialzo, sia in ribasso; e) in Asia incombe la minaccia del debito totale (pubblico e privato) dell’India (che potrebbe scatenare una crisi analoga a quella della fine degli anni Novanta).



Non vogliamo, però, essere le Cassandra di turno (pur se la figlia di Priamo non aveva tutti i torti). E i segni di ripresa vanno valutati pensando positivamente: con le politiche appropriate – ci si augura – si rafforzeranno, tirando l’economia internazionale fuori dalla palude.

Paradossalmente, da un lato, la ripresa internazionale, se ci sarà e tanto più sarà robusta, agevolerà i compiti del Governo Monti, ma, da un altro, li complicherà. Li faciliterà in quanto un Paese (come il nostro) aperto all’economia internazionale necessita di un’espansione nel resto del mondo per essere da esso trainato. Li complicherà perché se continueremo a crescere a tassi rasoterra (o peggio ancora a essere in recessione), il giudizio interno e internazionale sarà impietoso.



È, in parte, ciò che accadde al Governo Berlusconi nel 2006 e al Governo Prodi nel 2008. Le rigidità e le incrostazioni dell’economia italiana impedirono di agganciarsi alla ripresa mondiale del 2004-2007, con gli esiti che conosciamo. Il “Cresci-Italia” ha eliminato tali rigidità e incrostazioni? Non sta a noi rispondere, ma a chi ha la responsabilità di governare.