Che cosa salta fuori da questa “maratona” del confronto tra sindacati e governo sulla riforma del mercato del lavoro? I giornali titolano che l’articolo 18 viene modificato e che la Cgil non firmerà nessun accordo, promettendo scioperi e agitazioni. La dichiarazione del segretario Susanna Camusso è tutto un programma: “L’obiettivo del governo sono i licenziamenti facili”. In pratica non c’è, realisticamente, nessun accordo. Ci sono le decisioni prese dal governo, da Elsa Fornero, ministro del Welfare, in particolare, insieme al premier Mario Monti, che ora andranno in Parlamento. Spicca certamente su tutto il fatto che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori viene esteso a tutte le aziende, anche quelle con meno di 15 lavoratori, e si vedono cambiamenti nella casistica dei licenziamenti. Rimane il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori, si modifica il criterio per quelli disciplinari (reintegro oppure indennizzo anche fino a 27 mensilità, a secondo della decisione del giudice), si prevede la sola indennità nei licenziamenti per motivi economici. Abbiamo chiesto un commento a Francesco Forte, grande economista ed ex ministro delle Finanze.
Come giudica le modifiche apportate da questa riforma?
C’è qualche passo avanti. È un po’ nebuloso l’aspetto dei licenziamenti disciplinari. Occorrerà quindi aspettare il testo definitivo della riforma per avere un giudizio più chiaro. Per quanto riguarda i licenziamenti per motivi economici si poteva anche scegliere una formulazione differente. In ogni caso si può dire che siamo di fronte a un fatto storico, con la sinistra ex comunista, che oggi, senza dirlo, riconosce i meriti dello spirito originario di quello Statuto voluto da Giacomo Brodolini e dai riformisti. Si è rotto in un certo senso un tabù, nonostante il vizio ideologico degli ex comunisti, che oggi sono diventati liberali. Ma tuttavia c’è stata una rottura più grande.
Quale?
Il vero tabù che è caduto in questo lungo confronto, che andrà avanti in Parlamento, è quello della concertazione, su cui hanno sempre giocato sia i sindacati che Confindustria. Questa è la vera svolta di cui tutti dovranno prendere atto. La concertazione era stata messa in discussione solo da Bettino Craxi a metà degli anni Ottanta e allora fu considerato, soprattutto a sinistra, una sorta di scandalo. Oggi hanno scoperto che quella era la strada giusta, con un po’ di ritardo devo dire, perché anche nella Seconda Repubblica fu Carlo Azeglio Ciampi a riprendere quella linea di concertazione e i presidenti di Confindustria, da Luca Cordero di Montezemolo fino a Emma Marcegaglia, hanno sempre battuto quella strada. Considerando questo governo come un prodotto della sinistra, potrei dire che l’esecutivo, volendo la coesione, in un certo senso ha sconfitto l’ideologia che difende.
Di fronte alla riformulazione dell’articolo 18, c’è però un atteggiamento restrittivo, quasi punitivo, su tutta la materia del mercato del lavoro, per quanto riguarda i contratti a termine, a tempo determinato, quelli con le partite Iva.
In questo caso si è fatto un passo indietro. Ma qui salta fuori l’impostazione di fondo, l’ideologia di Elsa Fornero e di Pietro Ichino, che sono sempre legati a un contratto nazionale di diritto pubblico. In questo caso, anche se Mario Monti dice di essere legato all’economia sociale di mercato, non ne viene rispettata la premessa: in una società privata, le persone vengono prima dello Stato e delle istituzioni. Per fare un contratto aziendale di part time, un contratto a termine, perché devo ricorrere al diritto pubblico o a quello corporativo, a un contratto erga omnes? Si può fare un contratto aziendale secondo il diritto del codice civile.
Tutto questo avrà un peso sul mercato del lavoro?
Ho la sensazione che tutto questa impostazione sui contratti di lavoro, nel momento in cui cade la concertazione, alla fine non reggerà. Anche l’aumento del contributo del datore di lavoro nel contratto a termine e nelle altre forme contrattuali alla fine non penso che reggerà. Adesso, dopo la caduta della concertazione, il prossimo passo è quello del contratto aziendale. E lì c’è già l’articolo 8 dell’accordo di settembre che traccia una strada.
Ma restando a questo primo passaggio del governo, si può dire che il mercato del lavoro sia più libero e quindi possa attirare investimenti esteri?
Possiamo dire che questa sia una condizione permissiva, ma non sufficiente. È vero che la riformulazione dell’articolo 18 è stata fatta per attirare gli investimenti esteri. Ma ci sono ancora tanti di quei vincoli da eliminare! Si sta varando una riforma di un sistema fiscale nel quale le imprese dovranno ancora pagare l’Irap, tassa sconosciuta all’estero. Poi ci sono vincoli di ogni tipo e alla fine la lunghezza dei processi civili, con una magistratura arbitraria. Guardando questo Paese, soprattutto dall’estero, c’è la sensazione che non ci sia la certezza del diritto.
Da tutta questa lunga vicenda il cosiddetto “governo dei tecnici” come ne esce?
Alla fine si è autodetronizzato. Non va avanti più per decreto legge, ma deve fare un disegno di legge, magari con delega, ricorrendo al Parlamento e quindi riconoscendone la funzione. A questo punto sta ai partiti, ai cittadini sollecitare le necessità, suggerire i cambiamenti opportuni.
(Gianluigi Da Rold)