“Finale contrastato per le Borse europee, con Milano che ha accusato la perfomance peggiore, penalizzata dalla notizia del mancato accordo tra il governo e le parti sociali sulla riforma del lavoro. Notizia che ha riportato lo spread sopra i 300 punti e il rendimento dei titoli di stato a dieci anni sulla soglia del 5%”. Così ieri sera una delle principali agenzie di stampa italiane. A parte che sull’articolo 18 pareva essersi registrato un “ampio consenso” da parte dei ministri-professori, entusiasti licenziatori tanto quanto ricchi e pacifici illicenziabili, ma siamo davvero sicuri che i mercati abbiano reagito male proprio alla supposta “rottura”?
Anzitutto: la riforma del mercato del lavoro – checché ne scrivesse quest’estate la letterina inviata della Bce al Governo italiano – può avere un effetto sulla ripresa a medio termine del Pil italiano (prospettiva certamente ineludibile e auspicabile), ma non sul rating sovrano a breve termine. Per stabilizzare quest’ultimo il governo ha già varato una pesante manovra fiscale e dure modifiche al sistema previdenziale. Per di più, i cosiddetti “nuovi ammortizzatori sociali” richiederanno risorse aggiuntive al bilancio pubblico, dal momento che né imprese, né organizzazioni sindacali accetteranno di accollarsi per intero l’onere di un impegnativo cambio di regole deciso dal Governo.
Lo Spillo, quindi, s’impunta un po’: non è che invece i mercati, per una volta, non si siano messi di cattivo umore per le pensose analisi dei “tecnici” sull’Azienda-Italia, ma per le decisioni prese da quegli stessi tecnici, durante i loro lunghi soggiorni nelle stanze dei bottoni della suddetta Azienda? Non è che i mercati siano rimasti molto più impressionati dei “media” italiani per la chiusura-choc di un finanziamento derivato acceso nel ‘94 ed estinto su richiesta della Morgan Stanley con una perdita istantanea di 2,6 miliardi per il bilancio pubblico italiano?
Il governo ha risposto, martedì, a un’interrogazione di Antonio Borghesi, deputato dell’Idv. “Questo fatto – ha chiesto Borghesi – è emerso indirettamente attraverso delle comunicazioni fatte da Morgan Stanley alla Sec americana, ha fatto ritornare in primo piano la questione dell’uso e del ricorso ai derivati da parte del Governo italiano, sul quale c’è sempre stata una grande opacità e mancanza di trasparenza. Noi su questo vogliamo chiedere conto al Governo. Addirittura, The New York Times un anno fa ha sostenuto che, a partire dal 1996, l’Italia avrebbe truccato i propri conti utilizzando derivati grazie proprio all’aiuto di Morgan Stanley. Secondo Eurostat, il Ministero dell’Economia tra il 1998 e il 2008 avrebbe grandemente fatto ricorso ai derivati con ovviamente, come per tutti i derivati, momenti in cui questo ha dato dei vantaggi – più o meno fino al 2006 – ma poi ha iniziato a determinare delle perdite. Il problema è che qualcuno parla di 30 miliardi di euro che sarebbero investiti da parte del Governo italiano in derivati. Riteniamo sia giusto che il popolo italiano e noi si sia a conoscenza in modo trasparente della situazione, in particolare se è vero che a Morgan Stanley è stato fatto questo versamento in un momento così difficile per il nostro Paese per permettere a questa società di ridurre la sua esposizione verso lo Stato italiano di una cifra così rilevante e se è vero che questa operazione in realtà sarebbe stata agevolata da una triangolazione con il gruppo Intesa”.
Tutti, a questo punto, immagineranno che a rispondere sia stato il ministro dell’Economia, cioè lo stesso premier Mario Monti (a lungo ben remunerato advisor di Goldman Sachs per l’Italia): fra l’altro il figlio di Monti, Giovanni, lavora proprio alla Morgan Stanley. Oppure il viceministro Vittorio Grilli, che negli ultimi sette anni è stato direttore generale del Tesoro, secondo successore di quel Mario Draghi che era il primo dei “tecnici” del Tesoro all’epoca dell’apertura del derivato-killer. Suo successore fu in ogni caso Domenico Siniscalco (poi anche ministro del Tesoro) che oggi è “vicepresident” di Morgan Stanley per l’Italia. Beh, a rispondere in Parlamento è venuto invece il sottosegretario del Miur, Marco Rossi Doria: un vero “tecnico” del ramo. Il quale ha dato sì una notizia, ma poco rassicurante: il nozionale dei derivati a copertura del debito pubblico italiano è pari a 160 miliardi, il 10% dell’intero valore dei titolo in circolazione. Ma non ha confermato, Rossi Doria, qual è il rischio implicito corrente, che Bloomberg ha stimato in altri 22 miliardi.
Il sottosegretario all’Istruzione si è invece dilungato a spiegare il perché sarebbe “incongruo” per la contabilità pubblica italiana riportare puntualmente – cioè trasparentemente – il valore “mark-to-market” dei derivati (includendo cioè le variazioni positive o negative create nello strumento “swap” dall’andamento dei tassi). Peccato che sia quello che viene imposto da molti anni a ogni istituzione finanziaria dall’utilizzo dei principi contabili internazionali Ias: quelli stessi, tra l’altro, che hanno obbligato le banche italiane (mal difese dal loro Governo) a svalutare i titoli di stato italiani in portafoglio durante la fase più speculativa della crisi, sopportando bocciature patrimoniali assolutamente “incongrue” da parte dell’authority europea Eba.
Umberto Cherubini, un matematico finanziario dell’Università “Cesare Alfieri” di Firenze, ha riepilogato così su linkiesta le risposte che “il Ministero dell’Economia dovrebbe rilasciare ai contribuenti italiani”: Il contratto, stipulato nel 1994, con il termsheet allegato, aveva il fine di: i) coprire il rischio di tasso; ii) coprire il tasso di cambio; iii) allungare le scadenze dei pagamenti di interesse; iv) vendere assicurazione a Morgan Stanley per fare cassa. Il valore del contratto all’origine era di XX miliardi di dollari. Nel caso il contratto fosse di copertura, l’errore di copertura alla fine è stato di Y miliardi a favore (sfavore) del Tesoro. Il contratto stipulato nel 1994 includeva: i) una clausola di estinzione a favore di entrambi i contraenti; ii) una clausola di estinzione a favore della banca. Inoltre, la clausola di estinzione era: i) europea, su quale data; ii) bermuda, su quali date. Infine, il valore di questa clausola ha portato YY miliardi a favore dei contribuenti italiani.
Nell’attesa, Cherubini si mostra paziente e serafico: “Il Tesoro ci dica che allora ha fatto del suo meglio, e ci dica chi ha preso quella decisione. Noi saremo comprensivi, e al massimo gli diremo: “Tesoro, non lo fare più””. A un patto, aggiungiamo noi: che il nuovo direttore generale del Tesoro non sia, per cooptazione tecnocratica quel Francesco Giavazzi, che si sta insistentemente autocandidando dalle colonne de Il Corriere della Sera. Che resti a lucrare un “congruo” gettone nel consiglio di Autogrill; “congrua” azienda monopolista adatta a un “congruo” libero-mercatista all’amatriciana. Di quelli cui una qualsiasi Morgan Stanley venderebbe facilmente un “congruo” derivato, com’è capitato a centinaia di sindaci, assessori, presidenti di regione: la “casta” che i Giavazzi fustigano per mestiere ogni giorno.
Ma ogni tanto per quelli – e per le banche che hanno avvelenato i bilanci degli enti locali – si muove qualche Procura. Invece per il Tesoro, tra dieci o vent’anni, il presidente di turno della Corte dei conti, dirà davanti a una platea insonnolita, che sì, quella volta (ad esempio, della svendita di Telecom), forse i tecnici del Tesoro potevano fare un po’ meglio.