Se non si trovano altre strade occorrerà aumentare l’Iva di altri due punti. Lo ha annunciato il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, che a Cernobbio ha sottolineato: “Si è dovuta mettere l’Iva da un certo punto per far quadrare i conti. L’impegno per evitare che succeda, anche se è quasi automatico se non troviamo altre fonti, riguarda tutti”. Dal ministro però nemmeno un accenno all’ipotesi di attuare delle dismissioni, nonostante Mariano Bella, direttore dell’Ufficio studi della Confcommercio, avesse richiamato tutti: “Le strade per rilanciare la crescita nell’ambito del rispetto del fiscal compact passano da un taglio della spesa pubblica, assieme ad un programma di dismissioni di asset pubblici, da destinare a riduzione del debito”. Per Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università Bicocca, “una classe politica seria annuncerebbe fin da subito la vendita delle quote di controllo di Poste italiane e Ferrovie dello Stato, e l’acquisto di credibilità internazionale consentirebbe di decapitare lo spread del nostro Paese”.



Professor Arrigo, ritiene che il governo Monti debba optare per l’incremento dell’Iva o per le dismissioni?

Non ci sono alternative rispetto al capire che cosa si può cedere del patrimonio pubblico e incominciare a farlo, senza perdere altro tempo. Ritengo inaccettabile questo ulteriore aumento dell’Iva, addirittura di due punti, in un anno di recessione in cui il nostro Pil se va bene scende dell’1,5%, e se va male scende del 2% o più. La strada obbligata è quindi cercare di sistemare la finanza pubblica privatizzando degli asset patrimoniali. Il governo è già in ritardo, avrebbe dovuto già annunciarlo il giorno di insediamento del governo.



Se quella delle dismissioni è una strada obbligata, per quale motivo Passera non l’ha nemmeno presa in considerazione?

Non si tratta di una scelta che rientra nella logica della cose. Il governo Amato, che con la crisi valutaria e finanziaria dell’autunno ’92 si trovò a gestire un’emergenza paragonabile a questa, come primo provvedimento mise in campo le privatizzazioni. All’epoca le imprese pubbliche erano molto più numerose rispetto a oggi, e molte di esse non avevano nemmeno una natura privatistica in quanto non erano Spa.

In che senso?

Eni ed Enel non erano neanche privatizzabili, ma Amato attuò quel provvedimento di trasformazione giuridica da enti pubblici in società per azioni per avviare poi il processo di privatizzazione. Al contrario del governo Amato, che aprì fin da subito il capitolo dismissioni, con il governo Monti l’idea di ridurre gli asset pubblici mettendoli sul mercato non è stata nemmeno contemplata, e questo è davvero stupefacente perché non c’è nulla che segnali l’intento di ridurre il peso dello Stato sul sistema economico. Si tratta dopotutto di segnali facili da offrire, perché dipendono soltanto dalla volontà dello Stato. Chi potrebbe fare resistenza? Dopo avere accettato il cambiamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nemmeno gli stessi sindacati possono opporsi alla privatizzazione di Poste e Ferrovie dello Stato.



 

Francesco Rutelli ha dichiarato: “Non possiamo immaginare di poter svendere Eni, Enel e Finmeccanica, che sono i nostri gioielli pubblici”. Che cosa ne pensa di questa affermazione?

 

Potrebbero incominciare a vendere quelli che non sono i gioielli, come le Poste e le Ferrovie dello Stato. Il premier inglese John Major nel 1995 vendette le ferrovie, e da allora i passeggeri sui treni britannici sono raddoppiati e le merci sono aumentate del 70%: privatizzare quindi ha prodotto crescita.

 

Ma esistono degli acquirenti in grado di rilevare poste e ferrovie in Italia?

Il problema è che i nostri politici hanno in mente di collocare sul mercato ulteriori quote azionarie delle società pubbliche. Il mercato è debole, le quotazioni sono basse ed è quindi chiaro che in questo modo si incasserebbe poco.

 

Ma c’è davvero bisogno di mantenere il controllo pubblico di poste e ferrovie?

 

Se agli azionisti e ai risparmiatori che acquistano in Borsa con offerte pubbliche di collocamento si mettono a disposizione ulteriori quote, non si ottengono cifre rilevanti perché con la recessione e la crisi borsistica le quotazioni sono ribassate. La vera alternativa è quella di cedere quote di controllo delle aziende pubbliche, perché allora sarebbe corrisposto il premio di maggioranza: eppure questa è una soluzione che i nostri politici rifiutano categoricamente. Eppure esistono Paesi, per esempio la Gran Bretagna, che non sono proprietari di imprese energetiche, elettriche e ferroviarie.

 

Fino a che punto le dismissioni sarebbero in grado di permettere di agganciare la ripresa?

 

Oltre che dell’aspetto finanziario in senso stretto, bisogna tenere conto della credibilità che guadagnerebbe l’Italia Paradossalmente, la privatizzazione da cui si otterrebbe di meno sarebbe quella della Rai. Ma una classe politica che fosse credibile constaterebbe che la Rai per il 75% della sua programmazione fa attività commerciali, e quindi la metterebbe sul mercato. Anche quelle di poste e ferrovie sarebbero privatizzazioni eclatanti, che non fornirebbero proventi rilevanti da qui alla fine dell’anno, ma darebbero un segnale molto robusto. La classe politica italiana, i partiti di maggioranza e il governo sono disponibili a vendere queste grandi aziende pubbliche dopo averne attuato una profonda riforma? Se è così, l’acquisto di credibilità a livello internazionale sarebbe tale da decapitare lo spread.

 

(Pietro Vernizzi)