Sono giorni particolarmente intensi per il Governo e il Parlamento, impegnati nei lavori di approvazione della riforma del lavoro e nella conversione del decreto liberalizzazioni (il D.L. 1/2012). Una fase di pregnante importanza come quella presente stimola ulteriormente una riflessione sul tema della concorrenza, un termine frequentemente ignorato da alcune parti, o abusato e talvolta assolutizzato come fine di ogni processo economico e non invece come mezzo da altre, un processo regolato a beneficio di imprese e di consumatori.



La sensazione è che oggi, a poco più di vent’anni dall’adozione della legge antitrust nazionale, il valore della concorrenza, e dunque l’attuazione nel mercato reale (e nella società) dei suoi processi tipici tendenti all’efficienza e al merito (inteso in senso lato), stia ancora faticando non poco a radicarsi in Italia, e che ci siano ancora molte resistenze e distorsioni da rimuovere.



Tuttavia, preso atto della “convalescenza” concorrenziale in cui il Paese versa, è bene fare chiarezza sulle patologie del nostro Paese che non hanno permesso di garantire un mercato realmente e totalmente aperto, davvero concorrenziale, una vera e propria workable competition. Sullo sfondo vi è la fondamentale questione della cultura della concorrenza come mezzo (su cui si è puntato poco o nulla in Italia negli ultimi vent’anni) e che invece, nel periodo storico-economico attuale, caratterizzato da grandi tensioni, va promossa a ogni livello nella società civile.

Ecco che la domanda resta, e richiede un approfondimento. Ne abbiamo discusso il 22 marzo in occasione di un convegno dal titolo “Lo stato della concorrenza in Italia, analisi e prospettive”, organizzato dal Centro Studi Tocqueville Acton e dall’Osservatorio Antitrust dell’Università di Trento, tenutosi a Roma nella Sala dei Certosini presso la Chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri alle Terme di Diocleziano. Sono intervenute personalità di primo piano come Antonio Pilati (già Componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato), e il Prof. Alfredo Macchiati, e non ha mancato di far pervenire il suo messaggio il Prof. Giulio Sapelli, impossibilitato a partecipare.



Se si potesse fare una considerazione di sintesi, è efficace la battuta sempre arguta e molto stimolante di Sapelli, che ha ricordato come le privatizzazioni degli anni Novanta furono un’occasione mancata. Senza le liberalizzazioni effettuate per tentare di risanare il debito pubblico, queste si sono trasformate di fatto in una sorta di deprivazione di una parte importante del patrimonio industriale sotto la sovradeterminazione dell’oligopolio finanziario internazionale e di “omofiliaci” gruppi di interessi nazionali. Per Sapelli, gran parte delle ragioni della mancata crescita endogena che oggi la crisi economica mondiale esalta risiede proprio nell’errata politica di privatizzazione di quegli anni.

Se poi Pilati ha richiamato la necessità di riformare energia e servizi pubblici a livello locale, così il Macchiati ha mosso eleganti critiche alle misure di liberalizzazione in via di approvazione, ritenute insufficienti per superare la fase di immobilismo.

L’occasione del convegno ha permesso di riesumare il tema – temporaneamente accantonato dal dibattito pubblico – della possibile revisione dell’articolo 41 della Costituzione, accusato di impostazione dirigistica e nella sostanza in contraddizione con i principi del Trattato Ue che al contrario sanciscono il principio di concorrenza in una prospettiva di economia sociale di mercato. La distonia culturale effettivamente sussiste, nulla quaestio, e specialmente il comma 3 riflette una visione programmatica e dirigistica dell’economia. Ma facciamo chiarezza: l’articolo 41 non ha ostacolato le riforme in Italia nemmeno nel passaggio cruciale dallo Stato gestore allo Stato regolatore.

Così come negli anni ‘60 in nome di detto principio è stata approvata una legge di “programmazione economica” di visione piuttosto statalista, così 30 anni dopo è stata istituita l’Autorità Antitrust con una legge (L. 287/90) che sostanzialmente riflette i principi e le norme del Trattato sul funzionamento dell’Ue. Cosa ancora più importante, il ricorso ai principi comunitari da parte dei giudici già garantisce l’enforcement diretto anche in Italia delle norme sulla libera concorrenza previste nel Trattato Ue. In un’ottica di ridimensionamento dell’articolo 41, questo va dunque meglio considerato come norma manifesto, tanto rilevante quanto flessibile, la cui modifica non deve offuscare la necessità di riforme reali per la crescita e lo sviluppo del Paese.