Il Presidente del Consiglio Mario Monti è partito per un “road show” di una decina di giorni con l’obiettivo, meritorio, di contribuire ad attivare investimenti verso l’Italia da paesi dell’Estremo Oriente e dell’Asia Centrale i cui conti con l’estero sembrano essere strutturalmente in sovrappiù. È probabile che i suoi interlocutori gli chiederanno che fine hanno fatto le riforme e in particolare quel Piano nazionale di riforme (Pnr) la cui bozza era stata annunciata per metà marzo e che comunque dovrà essere consegnato all’Unione europea entro il 30 aprile. Il Cnel ha già predisposto un documento di osservazioni e proposte e sono in dirittura d’arrivo i contributi dell’Osservatorio per le strategie europee per la crescita e l’occupazione (Oseco).
È chiaro che il Pnr non si sarebbe potuto completare senza il capitolo sul riassetto del mercato del lavoro. È anche chiaro che sarebbe stato prudente attendere il completamento dell’iter parlamentare del decreto sulle liberalizzazioni soprannominato “Cresci-Italia”. Occorre, però, chiedersi se il disegno di legge sul mercato del lavoro non rischia di essere fortemente riduttivo (rispetto alle attese suscitate). È una domanda più che naturale dato che il “Cresci-Italia” è stato, in gran misura, ridimensionato. È così difficile fare le riforme essenziali a far decollare un Paese la cui crescita è da quindici anni rasoterra?
Un testo di culto della sinistra riformista – “Come fare passare le riforme” di Albert Hirschmann (scritto negli anni Sessanta ma pubblicato in italiano da Il Mulino nel 1990) – sostiene che le riforme necessitano di anni di vacche grasse, in quanto i riformatori devono disporre di risorse con cui compensare le categorie danneggiate (anche quando il danno altro non è che una perdita di privilegi). La bassa crescita economica dell’Italia e le severe restrizioni finanziarie che sono state addotte – si dice – sono stati ostacoli alle riforme proprio perché, nel mercato della politica, non c’erano strumenti per “comprarle”. Con la crisi finanziaria e una recessione che si sta aggravando siamo in una situazione analoga?
Non necessariamente. Già nel 1991, in un libro a quattro mani (G. Pennisi e G. Scanni, “Debito, crisi, sviluppo”, Marsilio) venne dimostrato che in numerosi paesi la crisi del debito estero dell’ultima fase degli anni Ottanta è stata la molla per riforme, spesso coraggiose, quasi sempre predisposte da anni; documentammo anche che tali riforme avevano successo se “socialmente compatibili”. Pochi mesi dopo, tra il settembre 1992 e il marzo 1993, a fronte di una crisi tale da comportare il deprezzamento del 30% della lira, il Governo Amato attuò un programma di riforme drastiche (previdenza, mercato del lavoro, pubblico impiego).
Analogamente, nella primavera 1995, quando la lira traballava e si temeva per l’ingresso dell’Italia nell’euro, il Governo Dini riuscì a fare salpare la riforma della previdenza in cantiere sin dal 1978 (Commissione Castellino). Ancora, le riforme del mercato del lavoro, degli incentivi industriali, del bilancio dello Stato e l’inizio di quelle della scuola e università sono state varate negli “anni difficili” che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001. Recentemente le nuove riforme della previdenza sono state con il “Salva-Italia” quando lo spread sembrava impazzito.
Per Governo e Parlamento, quindi, la crisi finanziaria ed economica dovrebbero – come affermava una vecchia pubblicità – mettere un turbo del motore delle riforme, specialmente di quelle “socialmente compatibili”. In primo luogo, tornare allo spirito iniziale del riassetto della previdenza, utilizzando eventuali risparmi per ammortizzatori sociali per i più deboli. In secondo luogo, attuare a pieno la modernizzazione della Pa per renderla più efficiente e più efficace, utilizzando il cloud computing. In terzo luogo, rivedere, una volta per tutte, contabilità speciali e fuori bilancio (spesso fonte di privilegi corporativi) e, se del caso, chiuderle. In quarto luogo, rompere le barriere tra i precari e gli altri.
È un disegno troppo ambizioso? Il documento Cnel (da due settimane nel sito web del Consiglio) suggerisce di andare verso un grande patto sociale per migliorare l’efficienza adattiva del Paese e modernizzarlo. Questo afflato di politica economica a medio e lungo termine, con un’attenta analisi dei costi e dei benefici di lungo periodo per le principali categorie sociali (principalmente le più deboli), è forse la cornice che è mancata e ha fatto sembrare le singole iniziative come azioni puntiformi, per frenare le quali si sono coalizzate le categorie che, a torto o a ragione, si sentivano prese di mira e colpite.
Ci sono anche stati errori tattici: la settimana scorsa, in particolare il 17-18 marzo, alcuni Ministri e Vice Ministri avrebbero fatto meglio a leggere “l’elogio del silenzio” prima di dichiarare a destra e a manca che l’accordo (sul mercato del lavoro) era ormai fatto. Non solo si brinda per l’acquisto di una casa solo dopo la registrazione del rogito, ma parlando troppo si suscitano irrigidimenti non certo favorevoli alle riforme.