C’è una cosa che noi europei, a differenza dei Nord americani, sentiamo irrinunciabile in quanto essenziale alla nostra idea di civiltà: il welfare universalistico. Il valore di ogni singola persona, unica e irripetibile nella tradizione cristiana, oggetto ultimo di giustizia nelle tradizioni socialista e comunista, protagonista del progresso in una vera tradizione liberale, motiva il diritto per tutti, indipendentemente da classe sociale o reddito, di accedere a servizi sanitari, educativi, assistenziali di uguale qualità. Per molti decenni, nel secolo scorso, questa possibilità sembrava garantita dal cosiddetto welfare state: mediante la spesa pubblica finanziata dalla fiscalità generale, le istituzioni hanno assicurato questo diritto, pur con diversa efficacia territoriale e settoriale, insieme alla miriade di realtà di base, nate prima dell’unità d’Italia, o dopo, dal movimento cattolico, da quello operaio e dall’imprenditoria laica.
Oggi, l’elevato debito di molti Paesi, e italiano in particolare, rende necessario tagliare la spesa pubblica, cosa che gli Stati fanno anche diminuendo i trasferimenti agli enti locali, i quali stanno riducendo gli interventi in molti settori: assistenza, formazione professionale (che sarebbero strategici in un momento di crisi economica), cura delle malattie croniche (in forte aumento anche per la crescente speranza di vita), sport per tutti, tempo libero, cultura, verde e parchi.
Una certa letteratura, sostenuta dal vezzo di alcuni media, suggerisce che questa riduzione delle risorse pubbliche apra a un cambiamento: là dove c’era lo Stato subentrerà il mercato. Come se, dopo la recente crisi finanziaria ci si possa ancora illudere che le dinamiche del mercato siano in grado di per sé di portare – attraverso la magia di una “mano invisibile” – un maggior benessere per tutti. Ciò vale a maggior ragione nel caso di beni e servizi di welfare che per lo più non possono assicurare un ritorno adeguato per un privato a fini di lucro che deve remunerare l’azionista con l’utile che ricava. Quale ritorno può esserci nella gestione di nidi, asili, scuole libere, doposcuola, polisportive, oasi naturali, interventi di housing sociale destinati a non abbienti? A maggior ragione dopo anni di liberalizzazioni che hanno creato oligopoli in servizi di pubblica utilità quali gas, energia, trasporti, è ragionevole chiedersi se l’alternativa a un pubblico inefficiente e senza soldi sia sempre e solo un privato a fini di lucro.
La verità è che questa crisi duale e contemporanea di finanziarizzazione e statalismo mette in luce il ruolo, da riscoprire nella sua attualità, di realtà come cooperative di produzione e consumo, enti assistenziali e sanitari, realtà di formazione per ragazzi difficili, centri culturali, mutue, banche popolari, casse rurali, casse di risparmio, attività ricreative, case a basso prezzo.



Solo la sussidiarietà, intesa come la valorizzazione dell’azione di realtà senza fine di lucro messe in piedi da persone unite da un comune vincolo ideale, può permettere oggi di continuare a godere di una qualità della vita che né il pubblico né il privato a fini di lucro possono assicurare da soli. La natura non profit e la connotazione ideale di questi enti (non solo di volontariato ma, come nella tradizione anglosassone, anche di grandi dimensioni, con patrimonio e reddito), fa sì che essi eroghino servizi in modo efficace reinvestendo gli eventuali utili nell’attività stessa, senza l’obbligo di dividerli tra gli azionisti. In molti casi l’attività di fund raising permette loro di finanziarsi.
Certamente servirebbe loro e per il bene di tutti una legislazione realista e lungimirante: nell’ottica già perseguita con il “5 per mille” o il “più dai meno versi” si dovrebbero detassare le donazioni a queste realtà e moltiplicare il meccanismo della dote e dei voucher, fondi erogati dagli enti locali direttamente ai cittadini che li usano per pagarsi i servizi che scelgono.
Ciò che lo Stato può perdere in termini di tasse, lo guadagnerà in termini di giustizia sociale e minor entità della spesa pubblica grazie all’azione di realtà di base che, intervenendo in modo sussidiario, possono continuare a garantire quel welfare universalistico e sociale che, tasse o non tasse, lo Stato garantirà sempre meno. Chi abbia davvero a cuore il benessere di tutti non può mettere, a mo’ di struzzo, la testa sotto la sabbia.

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