In ognuno di noi c’è un piccolo nucleo di “sindrome del dottor Stranamore”. Ognuno di noi pensa che i problemi si possano risolvere a tavolino, secondo schemi di scuola avveniristica o ideologica, non misurandosi con la realtà che ci circonda. Non sfugge, a questa legge non scritta, persino l’emerito senatore a vita della nostra Repubblica, l’esimio professor Mario Monti, ex Presidente della Bocconi, chiamato al “capezzale” dell’Italia da quasi quattro mesi nel ruolo di premier di un “governo dei tecnici e dei competenti”.



In fondo, quando Stanley Kubrick ci regalò nel 1964 quello splendido film, “Il dottor Stranamore”, indicò una grande metafora della vita, dove la paura della guerra atomica si mescolava alle ossessioni che accompagnano la vita di tutti gli uomini. Peter Sellers, infatti, nel film di Kubrick, fa tre parti contemporaneamente. È il capitano di Sua Maestà britannica Lionel Mandrake, che cerca di far rinsavire, invano, un generale impazzito che rifiuta di dare “i miei fluidi vitali alle donne”. È il presidente Merkin Muffley, che cerca di uscire maldestramente da una situazione letteralmente impazzita. È infine il dottor Stranamore, che è quasi compiaciuto della bomba che scoppia e dell’“ordigno fine di mondo” che scatta, per proporre una sua soluzione per l’umanità futura, quella del dopo bomba atomica. Non c’è nessuno che ha pensato che, affidandosi ai meccanismi della tecnica, alla fine si rischia la desertificazione del pianeta.



Il professor Monti, fatte le debite proporzioni, ci ricorda Mandrake che tenta di far rinsavire il generale impazzito, poi ci fa tornare in mente Muffley che tenta di mediare tra “falchi” e “colombe” davanti al pericolo, ma a volte ci fa ripensare anche a Stranamore, quando parla di crescita e poi liberalizza taxi, farmacie e notai, bastonando allo stesso tempo gli italiani con una pressione fiscale che, nel suo insieme, non ha pari al mondo. Si dice che l’Italia non cresce da quindici anni circa e nessuno, se non pochi, spiega che il nostro Ttr, il Totale tax rate, è il più alto in assoluto del mondo. Ha impietosamente scritto il professor Luca Ricolfi: “Nell’ultimo periodo di crescita delle economie avanzate (1995-2007) l’Italia è stata l’unico Paese in cui sia la pressione fiscale complessiva, sia quella sulle imprese si sono entrambe mantenute sopra il 40%”.



Ci sono modelli sociali differenti nel mondo. Il modello scandinavo, ad esempio, ha una tassazione sulle persone che è superiore a quello italiano (in cambio tuttavia di un welfare di altissima qualità), ma è inferiore di almeno 15 punti rispetto all’Italia sulla tassazione delle imprese e dei produttori di ricchezza in genere. Nel Bel Paese c’è un gusto quasi “perverso” di tassare i produttori di ricchezza. Sui bilanci delle imprese gravano tre voci: il prezzo dell’energia, l’aliquota societaria (Ires e Irap), le tasse sul lavoro. Sono tutte voci di tassazione eccesiva. Di fronte a questo, c’è un apparato burocratico e amministrativo “mostruoso”, in percentuale il più grande e costoso del mondo, che pare divertirsi nella foresta delle leggi, delle disposizioni, delle circolari, per impedirti di svolgere una funzione imprenditoriale normale. Luciano Violante offre un’immagine splendida di questa foresta: “Una Repubblica giuridificata”.

La pressione fiscale sulle imprese e sui produttori di ricchezza in Italia ha fatto in modo che la secolare “questione meridionale” si trasformasse in “questione settentrionale”, quando si è notato che dagli anni Novanta il reddito pro-capite del Nord ha cominciato a crescere meno del reddito pro- capite del Sud. Tutta la prosopopea e la retorica della Lega Nord (e la stessa Lega) nascono da questa semplice constatazione, fatta di numeri e percentuali.

È giusto combattere l’evasione fiscale, ma non si riesce a comprendere perché il dottor Attilio Befera ed Equitalia si accaniscano su scontrini e bilanci aziendali di una zona d’Italia che ha un’evasione media del 19% (al Nord, in Lombardia è del 12%), mentre sembrano trascurare una zona come il Sud, dove l’evasione sfiora il 55%, o lo stesso Centro Italia, che raggiunge il 27%. Se Tommaso Padoa Schioppa sosteneva che “È bello pagare le tasse”, l’attuale governo si è impegnato in una politica anti-evasione a botte di spot, non comprendendo forse che l’evasione ha certamente una “madre” nella diseducazione acivile e asociale (oltre che nella criminalità organizzata), ma anche un “padre” in uno Stato onnivoro, miope e strabico.

La pressione fiscale sui produttori di ricchezza è tale che le aziende non dislocano nemmeno più in Transilvania, ma addirittura nella ricca Svizzera, che ha già abbassato la pressione fiscale sulle imprese. Così come ha fatto la Germania, per lungo tempo la “malata d’Europa”, che ha cominciato a crescere quando ha ridotto le imposte sulle imprese. Anche la Germania, tanto decantata ci è arrivata, magari tardi, perché come dice il professor Francesco Forte, “i tedeschi hanno il pregio di comprendere quello che succede con un anno di ritardo”. Eppure di fronte a questa evidenza della ipertassazione dei produttori di ricchezza in Italia, continuano le prediche (persino la Chiesa ha bollato l’evasione come peccato) sul dovere di pagare le tasse e su una serie di discorsi quasi marginali rispetto al problema reale.

In questi quattro mesi si è parlato e riparlato di tutto. Ci si divide come “cavalieri medioevali” sulla rilettura dell’articolo 18, si è discusso di semplificazioni al Ducotone e di liberalizzazioni al Tintal, esattamente vent’anni dopo aver fatto il “buco nero” delle privatizzazioni senza liberalizzazioni, che hanno tolto al Paese persino dei centri di ricerca e produzione strategici, premiando alcuni beneamati e costituendo alcuni monopoli privati. Si parla con insistenza (anzi, se ne è fatta un’industria editoriale) del costo e delle malefatte della “casta” che, alla fine, se ridotta all’osso, ci farebbe recuperare uno 0,2% rispetto al fabbisogno. Ma non si dice una parola su un patrimonio pubblico immobiliare di 1800 miliardi di euro, di cui quasi 400 disponibili subito, che se collocato con buon senso sul mercato abbatterebbe lo stock del debito italiano almeno al di sotto del 100% del Pil.

Naturalmente il Total taxe rate italiano è servito a garantire le obbligazioni delle nostre banche, affinché andassero alla Bce per finanziarsi all’1%, rivendendo poi il denaro ai produttori di ricchezza italiani al 6%, quando va bene. È servito a raffreddare lo spread, diventato più familiare della fidanzata. È servito a ridare credibilità all’Italia su un mercato mondiale che deve essere totalmente riformato. La signora Merkel ci abbraccia, il cinese Hu Jintao ci loda, il presidente Obama sgrana gli occhi per lo stupore delle “riforme” italiane. Ma intanto chi crea ricchezza in Italia deve continuamente rifare i conti, i consumi scendono vistosamente e bisogna fare i salti mortali con l’export perché sul mercato interno la domanda continua a scendere.

Ora l’emerito professor Mario Monti, ex presidente della Bocconi, senatore a vita e attuale premier, può benissimo ridare lustro all’Italia all’estero, ma finché la tassazione sulle imprese resterà quella che è l’appeal italiano per gli investimenti esteri resterà una chimera, i produttori di ricchezza italiani andranno a Chiasso o a Mendrisio, non solo per mettere i loro soldi nelle banche elvetiche, ma per produrci e il Pil del Bel Paese scenderà. C’è un’obiezione giustificata: al momento non ci sono soldi e quindi non si può neppure eliminare l’Irap. Ma qualche riconoscimento, qualche sussidio a chi si batte sul mercato attraverso l’apparato industriale e manifatturiero italiano lo mettiamo in conto o no? Altrimenti di quale crescita stiamo parlando? Di quale seconda fase stiamo strologando?

Nella parte finale de “Il dottor Stranamore”, suggerendo le sue soluzioni mondiali dopo l’innescamento dell’“ordigno fine di mondo”, Stranamore, nel suo slancio ideologico e nel suo entusiastico furore, non si accorge che rischia con una mano di strangolarsi da solo. È un pericolo che tutti quanti vorremmo evitare all’Italia.