Chi è stato Amministratore delegato della Fiat, sia pure per cento giorni finiti male, il veleno dal dente non se lo toglie più: anche per questo, probabilmente, Carlo De Benedetti ha scolpito il suo epitaffio sulla “cura Marchionne” alla crisi della Fiat in Italia, con il sarcasmo dell’outsider perenne che l’Ingegnere ha scelto di essere, dicendo: “Quando sento dichiarare che torna in Italia se l’Italia gli fa fare le automobili, io vorrei sapere cosa fa lui per fare le automobili che si vendono”. E la staffilata capita proprio nel giorno in cui il mercato europeo dell’auto piomba ai livelli minimi da ventotto anni (28!) e la quota delle marche Fiat si riduce ulteriormente, addirittura al 28% in Italia.
Più passano i giorni e più l’intervista con cui il capo del gruppo automobilistico ha annunciato di puntare sulle esportazioni dall’Italia agli Usa come unica condizione per poter mantenere attivi tutti gli stabilimenti italiani Fiat appare come un preannuncio di chiusura per due di essi: probabilmente non Mirafiori e Pomigliano, dove recentemente Marchionne ha conseguito il risultato dell’accordo sindacale senza Fiom-Cgil per la massima flessibilità; non Atessa, dove si producono in partnership internazionale soprattutto veicoli commerciali; ma se il mercato non tira e i modelli non piacciono, l’aria diventa cattiva per Melfi e per Cassino, fabbrica iper-robotizzata ma povera di modelli di successo.
Perché questa è sicuramente una parte di verità: Marchionne ha salvato la Fiat da un fallimento sicuro, tra il 2004 e il 2007, intervenendo a cuore aperto su un’azienda schiacciata da costi inutili e da una situazione finanziaria insostenibile. Poi però ha ritenuto di non poter o di non dovere puntare sul rinnovo profondo della gamma di prodotti e ha lasciato che in un mercato complessivamente fiacco le quote migrassero lentamente a favore dei concorrenti, soprattutto tedeschi.
La sua attenzione si è spostata invece su due fronti: uno sacrosanto, dove ha ottenuto un altro successo straordinario, cioè l’espansione internazionale, con l’acquisizione di una Chrysler anch’essa semifallita, la sua ristrutturazione, il risanamento e un accrescimento del valore per il gruppo torinese nell’ordine di almeno 10 miliardi di dollari; l’altro fronte, quello nazionale, ossessivamente concentrato in uno scontro con la Fiom-Cgil sulle regole della flessibilità in deroga al contratto nazionale di categoria che si è via via radicalizzato, conducendo alla clamorosa uscita della Fiat dalla Confindustria. Secondo Marchionne, infatti, la permanenza del gruppo tra le imprese rappresentate dalla confederazione la obbligava a rispettare il contratto nazionale che a suo avviso è incompatibile con le esigenze della competitività.
Ed è su questo fronte che la linea dura del manager italo-canadese ha mostrato molte crepe. Perché, pur se imitato da qualche altro gruppo nella polemica anticonfindustriale – per esempio, la Piaggio Aeronautica, Cartiere Pigna, Amplifon, Nero Giardini – Marchionne non è diventato un leader ideologico sulla linea della “fuga dall’Italia”. Perché asserire che con il costo del lavoro italiano e le regole sindacali del nostro Paese non sia possibile essere competitivi è, semplicemente, falso: almeno, non è vero per tutti. Aziende come la Piaggio motoveicoli, colossi internazionali come l’Ibm o la Saint Gobain, la stessa Brembo del marchionniano Alberto Bombassei – per non parlare del gruppo Mapei del favorito alla Confindustria Giorgio Squinzi – continuano a investire e produrre in Italia, con profitto.
È vero, piuttosto, che la capacità produttiva nel settore automobilistico mondiale è eccedentaria, almeno in questa fase storica, e che non c’è spazio per tutti. Ma lo spazio residuo lo conquista non solo e non tanto chi produce ai costi più bassi – perché allora le case tedesche avrebbero dovuto già chiudere – ma chi fa belle macchine, un po’ come nel settore della moda, dove il look conta tantissimo. E la Fiat, che nel suo genere fa ancora macchine molto belle, non ha però diversificato la gamma svecchiandola e orientandola ai segmenti più remunerativi del mercato, quelli medio-alti, appannaggio ormai quasi esclusivo dei tedeschi. E ne paga le conseguenze.
La linea-Marchionne, però, accredita l’idea che i problemi del Lingotto siano tutti “di sistema” e non, anche, di prodotto. E qui risiede una componente davvero grave della sua comunicazione: è profondamente ingiusto, cioè, addebitare al sistema-Paese ancora più responsabilità di quante già non abbia. Che il fattore-Italia sia un handicap, almeno rispetto a paesi dal basso costo del lavoro come il Brasile o la Turchia o la Serbia, è vero, anzi è ovvio. Ma che questo sovracosto sia un fattore insuperabile non è vero, perché tante aziende manifatturiere continuano a superarlo agilmente. Ed è anche se non illusorio certo molto ambizioso vagheggiare la possibilità di produrre in Italia auto da vendere poi negli Usa, perché è un’operazione mai riuscita nella storia, ed economicamente quasi insostenibile.
La stessa Fiat ci ha provato con la Cinquecento, ottenendo un risultato pari alla metà dell’obiettivo. Oltretutto, il costo del trasporto oceanico incide circa il 3% sul prezzo finale. E i prezzi di listino delle vetture sul mercato statunitense sono tradizionalmente più bassi che in Europa. Per esempio, la Bmw 328i, uno dei modelli-cardine del colosso tedesco, viene venduta in Europa (con differenze minime tra Germania, Italia e gli altri paesi) a 38.950 euro. Negli Stati Uniti, la stessa vettura, con l’allestimento più “difensivo” imposto dalle normative locali, viene venduta a 34.900 dollari. Pari a 26.400 euro. La stessa Fiat Cinquecento, nella versione più diffusa, viene venduta in Italia tra gli 11 e i 12 mila euro; negli Stati Uniti tra i 15 e i 16 mila dollari, pari appunto a circa 11-12 mila euro.
Insomma, il mercato europeo dell’auto ha il valore medio unitario più alto del mondo. E nel nostro continente, a vendere auto – quelle poche – si incassa più che in America. Dove, peraltro, il costo del lavoro è più alto che da noi: con un rapporto di 142 contro 100. Insomma, nell’insieme si potrebbe dire che è come se nel settore automobilistico il cambio euro-dollaro fosse in parità 1 a 1.
Le vetture europee più vendute in Nordamerica sono quelle di marca tedesca. Ma la Bmw si limita a fabbricare in Europa solo i motori destinati agli Stati Uniti, le automobili le produce (e assembla il tutto) nello stabilimento americano di Spartasburg. La Mercedes produce in Alabama. La Volkswagen in Messico. Toyota e Honda producono in loco con i loro “transplant”.
Ma allora? Se la sfida di produrre in Italia e vendere in America sarà persa, o magari neanche giocata, cosa accadrà a due dei cinque stabilimenti italiani della Fiat? L’ha già fatto capire Marchionne, anticipando di fatto lo scenario della prossima emergenza: il problema dell’eccesso di capacità produttiva in Europa, ha detto, “richiede uno sforzo congiunto coordinato dei paesi europei, non può essere lasciato a soluzioni nazionali”. Insomma, la palla passa a Bruxelles. Per risolvere i problemi della Fiat come quelli della Psa e della Renault. A meno di miracoli, è questione di mesi.