L’impatto della crisi nella nostra società ha generato una frattura strutturale: la domanda pagante di alcuni settori non esiste più, cambiano radicalmente le abitudini di consumo e si polarizzano i redditi degli italiani fra chi continua ad accumulare (e in termini relativi ha una capacità di spesa sempre maggiore) e chi invece insegue la “spesa quotidiana” scivolando lentamente verso la soglia di povertà relativa. Si pensi, ad esempio, al dato medio del “reddito familiare annuo” – al netto delle imposte e dei contributi sociali – che è pari a 32.714 euro (2010), pari al -2,4% in termini reali rispetto al 1991 (fonte: Banca d’Italia).



La realtà è inesorabilmente un’altra rispetto al passato e sono mutati i significati di termini fino a non molto tempo fa “certi” nella vita di ognuno di noi: salute, assistenza, istruzione, cura, prevenzione, occupazione sono diventate aree di “incertezza”, ambiti da riconquistare cui non corrisponde più una “prestazione attesa” sicura e di qualità.



La frattura generata ha separato la nostra società su più livelli. Due con riferimento al tema del welfare: quello di tipo universalistico, da un lato, oggi in forte ritirata e quello, dall’altro, che ci si può garantire soltanto a fronte del pagamento di una forma assicurativa privata. Due i livelli di domanda: quella che cerca di soddisfare bisogni primari (cibo, salute, vestiti, ecc.) e quella che insegue “bisogni di status” (beni di marca, stili di vita legati a mode del momento, beni e servizi di alta gamma, ecc.).

Una situazione molto pericolosa questa, poiché alimenta nella società diversi percorsi identitari a seconda della categoria sociale di appartenenza, generando in tal modo culture e antropologie impermeabili e indifferenti al “diverso da sé”, dove i legami forti si attivano soltanto fra persone della stessa “famiglia”. A fronte di un cambiamento così profondo e radicale non ci si può difendere con tatticismi. Occorre, invece, partire dall’evidenza che la risposta non può muovere né dallo Stato, né dal Mercato, bensì dalla società civile stessa.



Una società capace sia di farsi “Stato” nel perseguire obiettivi di pubblica utilità; sia di farsi “Mercato”, costruendo una nuova domanda e offerta di beni e servizi. Questo già succede. Accade ogni volta che sentiamo parlare di cooperative sociali che fanno nascere presidi sanitari, asili, centri diurni. Accade quando in una comunità si attivano forme di solidarietà per combattere nuove forme di povertà o quando nasce una fondazione che si propone di immaginare il futuro di una generazione di diversamente abili quando non potranno più avere i genitori accanto.

Un nuovo universalismo passa, pertanto, non solo da migliori politiche pubbliche e da uno sviluppo più  equo e sostenibile, ma innanzitutto dal protagonismo della società che trova nel non profit e nell’impresa sociale uno strumento potente per rigenerare il ruolo dello Stato (oggi quanto mai indispensabile) e del Mercato.

Un nuovo universalismo è possibile solo dentro al paradigma dell’Economia Civile: un’economia in cui i soggetti della Società Civile escono dalla logica residuale e riconquistano un ruolo da protagonisti tanto nella sfera sociale quanto in quella economica.