Agli inizi degli anni ’90, la Svezia si trovava in una situazione familiare a chi oggi segue le notizie d’attualità: crescita debole, produttività in calo e crollo dell’export. A complicare il quadro, una bolla immobiliare, spesa statale fuori controllo e alto indebitamento pubblico. Vent’anni fa monitorare lo spread con il Bund non era ancora di moda, ma nel ‘92, quando il deficit primario raggiunse il 14% del Pil e la corona svedese si deprezzò del 15% sul dollaro, il governo di Stoccolma affrontò con efficacia quello che oggi appare come un presagio dell’attuale crisi europea.



Non trattandosi di una fiaba, anticipo che la storia non si conclude con un lieto fine: la Svezia è ancora segnata da problemi economici (alta pressione fiscale, apparato statale ingombrante) e non è ritornata ai livelli di benessere pre-crisi. Tuttavia, la gestione della recessione e l’interessante modello di crescita che ne risultò, rilanciano una questione di grande attualità: come possiamo uscire dalla crisi?



Iniziamo col dire che la ricetta svedese si divide in due fasi: l’emergenza e la ripartenza. La prima contempla il supporto pubblico alle banche e un’espansione monetaria a sostegno del debito pubblico e privato. Ossia, la politica che la Bce attraverso le Ltro ha attuato di recente, nonostante i veti di Berlino. La ripartenza, invece, prevede un cambiamento nei rapporti tra iniziativa privata e Stato, un esperimento che molti paesi europei oggi dovrebbero valutare con attenzione.

All’indomani della crisi, il neoeletto governo di Stoccolma decide per un cambio di rotta: salari, svincolati dai risultati d’impresa, e prestazioni sociali, pari al 22% del Pil, sono ancorati per la prima volta alla produttività e all’andamento del Pil. In parallelo, la pressione fiscale passa dal 62% al 57% del Pil (dati Ocse).



La mossa è da subito vincente: con il sistema del credito inceppato dalla crisi (suona familiare?), i risparmi delle imprese sono trattenuti in azienda per l’autofinanziamento. Segue un decennio di investimenti e ricerca ai quali ho avuto la fortuna di partecipare: agli inizi del 2000 mi trovavo nella contea del Götaland presso una piccola azienda creata da pochi mesi. L’impresa non si trovava in un garage (viste le temperature), ma al primo piano di un immobile che ospitava molte aziende di recente creazione. E in quello stabile ho avuto l’opportunità di osservare gli effetti di un’altra decisione presa anni prima, in piena crisi.

Tra il ‘91 e il ‘97, la Svezia ha speso almeno l’1% annuo del Pil in educazione, con un picco del 2% nel ‘97 (sono sempre dati Ocse). Tra questi capitoli di spesa, prestiti agevolati e borse di studio a studenti e dottorandi hanno giocato un ruolo importante (nel 2009, 2.8 miliardi di euro) e hanno prodotto risultati già nell’arco di due generazioni: nella fascia di popolazione tra i 25 e i 29 anni, in Svezia ci sono oggi più di 700 dottori di ricerca ogni 100mila abitanti, una delle più alte densità al mondo.

I riflessi sul mondo dell’impresa si rilevano sfogliando il registro europeo dei brevetti: nel 1990 in Svezia si registravano 40 brevetti ogni milione d’abitanti. Dieci anni dopo, i brevetti erano diventati 107. Come metro di paragone, in Italia nel 1989 si registravano 65 brevetti ogni milione d’abitanti, oggi 12.

Questa serie di elementi può già condurci a due conclusioni. La prima è che, per quanto le circostanze possano mutare e farsi avverse, l’educazione si dimostra il più solido caposaldo su cui costruire il futuro delle persone e di un Paese. Nello specifico del lavoro, anche quando le imprese entrano in crisi, il percorso professionale di imprenditori, impiegati, dirigenti e artigiani non deve arrestarsi e può continuare assumendo rischi che, complice la crisi, vale la pena correre: per esempio, cercando nuove soluzioni a problemi vecchi e nuovi (con più produttività e brevetti).

La seconda conclusione è che rigore e disciplina sono efficaci quando sono al servizio di un progetto educativo, quando, cioè, impongono sacrifici per trasferire risorse a chi, apprendendo, può condurci fuori dal guado della crisi. Nel caso svedese, al sostegno del debito pubblico è seguito un periodo di tagli e austerità che ha permesso di liberare risorse da lasciare in impresa (autofinanziamento) o trasferire a ricerca e formazione.

In questo, lo Stato è sceso in campo solo per assicurare alle persone una copertura ai rischi più importanti e di lunga durata (cambi di carriera, dottorati di ricerca), ossia quelle mosse che non potevano essere lasciate in toto all’iniziativa dei singoli e delle imprese.