L’ultimo Consiglio europeo si è concluso con una dichiarazione di quattro pagine piena di quelli che in inglese si chiamerebbero lip services alla crescita, ossia giaculatorie e auspici vari privi di contenuto effettivo. È comprensibile perché i 25 firmatari del “Fiscal Compact” – e degli accordi per il secondo salvataggio della Grecia (ma un terzo è all’orizzonte) – abbiano inteso intonare un coretto all’urgenza della crescita e alle sue virtù. L’accordo è nettamente deflazionista ed economisti di ogni scuola ormai affermano che porterà, se non interverranno correttivi, a una contrazione del Pil e dell’occupazione.
La strategia economica dell’Unione europea – afferma la dichiarazione – mira sia a proseguire il risanamento di bilancio, sia a intraprendere azioni determinate per potenziare la crescita e l’occupazione; “da una situazione caratterizzata da disavanzi e livelli eccessivi di debito non è possibile generare una crescita sostenibile e occupazione”. Secondo il Consiglio europeo, le misure adottate per stabilizzare la situazione della finanza pubblica nell’eurozona stanno dando frutti.
Dato che siamo nel periodo dell’anno in cui vengono allestiti i Piani nazionali di riforma, il Consiglio ha anche approvato le cinque priorità per il 2012 enunciate dalla Commissione nella sua analisi annuale della crescita (presentata con oltre un mese di anticipo prima della fine del 2011) e ha esaminato le iniziative che devono essere intraprese a livello nazionale. Gli Stati membri – sostiene la dichiarazione – devono avanzare più rapidamente verso gli obiettivi della strategia Europa 2020 e intensificare gli sforzi per attuare le riforme riprese nelle raccomandazioni specifiche per paese del 2011.
Nei Piani nazionali di riforma (attesi per fine aprile), essi dovrebbero indicare le misure che intendono adottare a tal fine. Il Consiglio ha inoltre discusso le azioni necessarie a livello dell’Ue per portare avanti il completamento del mercato unico in tutti i suoi aspetti, sia interni che esterni, e promuovere l’innovazione e la ricerca. L’enfasi è ancora una volta sulla ricerca, sull’innovazione e sulla tecnologia. Lo è dal marzo 2000 quando è stata varata con molto fanfara “la strategia di Lisbona” che avrebbe dovuto fare diventare, entro il 2010, l’Ue l’area più dinamica del mondo.
Non siamo certo a noi a considerare sbagliata una strategia imperniata sulla ricerca, sull’innovazione e sulla tecnologia. Lo sosteniamo da sempre. È, però, monca se l’Ue – la Commissione, il Consiglio, i singoli Stati membri – non si rende conto che essa non può avere effetti se non accompagnata da una strategia rivolta ad aumentare le dimensioni d’impresa. In queste ultime settimane, l’Eurostat ha prodotto statistiche eloquenti da cui si ricava che mediamente nell’Ue la produttività del lavoro nelle imprese con meno di 250 addetti è la metà di quella in imprese con più di 250 dipendenti.
Uno studio dell’Università Carnegie Mellon di Pittsburgh conclude che i severi problemi del debito estero di Grecia, Spagna e Portogallo – l’Italia non è trattata nell’analisi – altro non sono che la punta di un iceberg che ha le sue radici nella bassa produttiva delle piccole e medie imprese (Pmi) che caratterizzano le economie dei tre Paesi. Le dimensioni d’impresa – afferma lo studio – non sono il frutto della natura o del caso, ma almeno per quanto riguarda il Portogallo un esito della regolazione del mercato del lavoro. Un’analisi analoga, condotta dalla London School of Economics, riguarda la Francia: le imprese si addensano al di sotto della soglia dei 50 dipendenti per determinanti esogene che riguardano la normativa tributaria e lavoristica.
Lo studio “The Global Operations of European Firms” – condotto in collaborazione tra Ee, Bruegel UniCredit e condotta da specialisti dell’Università Bocconi, Banca d’Italia e di altri istituti – analizza 11.000 imprese in 7 paesi (Austria, Germania, Inghilterra, Francia, Ungheria, Spagna e Italia) per capire come le caratteristiche delle imprese rispetto a vari parametri, la loro collocazione in un dato Paese influiscono sulla loro efficienza, ma soprattutto sulla loro capacità a esportare e particolarmente nei paesi emergenti.
In Italia, infatti, la prevalenza di imprese micro e piccole è grandissima. All’ultima radiografia Istat risulta che in Italia la media di dipendenti per imprese è 4 e che le imprese con più di 250 dipendenti sono circa il 18% del totale. L’analisi tiene conto che la crisi ha pesantemente influito sulle imprese: il 51% del campione ha subito riduzioni nelle esportazioni con le imprese tedesche e austriache colpite meno duramente – rispettivamente 45% e 44% contro il 59% circa delle imprese francesi e ungheresi. Il 20% delle imprese tedesche è riuscito ad aumentare le esportazioni contro un 13,5% di imprese italiane.
Se non si dà la priorità in Europa (e soprattutto in Italia) a misure che facilitino l’aumento delle dimensioni d’impresa, sarà difficile risalire la china.