È fatta. Il 85% circa dei creditori privati della Grecia ha aderito al piano di salvataggio del debito di Atene, accettando un taglio sugli interessi. Stamane il ministero delle Finanze potrà così mettere a posto l’ultima tessera del mosaico annunciando il ricorso al Cac che sta per “Clausola di azione zollettiva”, che consente al governo di Lucas Papademos di imporre un taglio del 53,5% al valore dei vecchi bond posseduti dai creditori privati. In sintesi, una volta scattato il Cac, per i 177 miliardi di bond emessi sotto la legge greca Atene restituirà “cash” il 15% del valore nominale ed emetterà a favore dei portatori delle vecchie obbligazioni nuovi titoli per un valore pari al 31,5% dell’importo precedente. In questo modo, il Tesoro di Atene vedrà ridurre il proprio debito di circa 100 miliardi sul totale di 350 miliardi.



A dimostrazione che le cose stanno tornando alla normalità, infine, va segnalato che da ieri la Bce accetta di nuovo i bond greci come garanzia collaterale per i propri finanziamenti, cancellando il divieto imposto dopo il “selected default” di Atene da parte dell’ agenzia di rating S&P’s. Non resta, almeno per ora, che un ultimo scoglio: l’accordo con i creditori privati che possiedono bond greci emessi non ad Atene (e perciò sottoposti alla competenza dei tribunali greci), bensì a Londra.



Non è questione di poco conto, sia per l’entità della cifra (il 14% dell’esposizione della repubblica greca), sia perché, nelle corti della City, contano assai di più i diritti dei banchieri creditori che l’orientamento dei politici europei. E, a dimostrazione che le incognite non sono poche, ci stanno i prezzi dei nuovi bond, già scambiati sul mercato grigio ancor prima della loro emissione: i bond sono scambiati al 27-28,5% del valore, tre punti in meno dell’offerta ufficiale. Un segnale che la grande finanza non crede che la Grecia sia davvero scampata al disastro: un default, prima o poi, sembra inevitabile.



La ricetta tedesca del rigore, applicata a un Paese povero di risorse e di attività industriali, non convince nemmeno il mondo finanziario. Ma il risanamento di Atene non è più un problema delle banche private: i nuovi bond saranno emessi a Londra, perciò sottratti al rischio di colpi di coda della politica ateniese; ma, soprattutto, per almeno cinque se non dieci anni, la Grecia non sarà in grado di operare sui mercati, ma dovrà affidarsi alle risorse prestate dall’eurozona. L’eventuale nuova ristrutturazione del debito, quindi, non peserà più sui mercati, bensì sulle tasche dei contribuenti dei paesi dell’area euro. Ancora una volta, nota Nouriel Roubini, “la maggior parte dei guadagni della stagione favorevole, quando i bond vennero collocati a prezzi crescenti in giro per il mondo, è andata ai privati. Ma il vero conto, vuoi per l’insolvenza del passato che per le perdite future, lo pagheranno i contribuenti degli Stati aderenti all’euro”.

Anche per questo motivo, dopo aver tirato un legittimo sospiro di sollievo per aver evitato in extremis una collisione che avrebbe potuto avere effetti assai più devastanti del default di Lehman Brothers, è il caso di riflettere sugli insegnamenti della crisi greca. A partire dallo stato “selvaggio” in cui continuano a vivere i mercati finanziari. Il vero rischio di un’insolvenza di Atene, infatti, non stava tanto nell’impossibilità del Paese ellenico di onorare il pur ingente debito, quanto nel rischio che il default facesse scattare l’esercizio dei credit default swaps, in larga misura sottratti alle regole e al controllo di qualsiasi autorità.

Il rischio, insomma, è che a fronte di 2-300 miliardi di debito greco emergessero “polizze” contro la crisi greca (come dovrebbero essere i cds) per valori anche 3-4 volte superiori. Qualcosa del genere accadde al momento della crisi di Lehman, quando le autorità federali Usa scoprirono con sgomento che il colosso Aig aveva emesso “polizze” contro l’eventuale collasso di Lehman per importi largamente superiori all’eventuale sinistro. A vantaggio di sottoscrittori, tipo Goldman Sachs o Morgan Stanley, che forti di quella garanzia avevano aumentato le loro scommesse sui mercati. Qualcosa del genere è accaduto in questi anni sul mercato del debito sovrano.

Grecia, ma anche su Italia, Spagna e altri paesi dell’eurozona hanno visto schizzare a livelli abnormi, con una volatilità da cardiopalma, il prezzo dei loro cds sul mercato “libero”. Un fenomeno che ha una facile spiegazione: se io voglio assicurare la mia casa contro un incendio ho un ragionevole interesse a sperare che la casa non bruci. Ma se mi fosse consentito di assicurare la casa del mio vicino non una, ma almeno dieci volte, per una cifra assai superiore al valore di mercato dell’immobile, avrei tutto l’interesse a sperare in un incendio capace di distruggere tutto e farmi così incassare la polizza.

È in questa logica che vanno inquadrate le scorribande speculative sull’eurozona: chi ha comprato cds a piene mani, facendo schizzare il prezzo del rischio Italia non necessariamente possedeva un solo Btp (anzi, era venditore allo scoperto), né voleva assicurarsi contro l’eventuale collasso dell’Italia, bensì “tifava” per il naufragio.

Di fronte a questa situazione, già a fine 2009 il G20 si era impegnato a incanalare entro il 2012 gli scambi di cds nelle “clearing houses” ufficiali, per avere sotto controllo almeno la dimensione del fenomeno. In realtà, da quel che risulta al New York Times, a dieci mesi dalla data prevista solo il 9% degli scambi dei cds avviene in una clearing house ufficiale. Il mercato resta nelle mani di cinque colossi della finanza mondiale che si scambiano i cds in forma privata, talvolta quasi segreta.

In certi casi il contratto viene passato a mano, in busta chiusa, per evitare occhi indiscreti. Nascono così i cds che alimentano l’attività della finanza ombra, ovvero l’attività di hedge fund e altri operatori corsari che si scambiano i cerini nella santabarbara del debito degli Stati, magari con la speranza che la polveriera esploda. È augurabile che, una volta superata l’emergenza greca, si proceda a far pulizia in questo angolo così selvaggio eppur così importante della finanza.

I cds non sono affatto inutili. In assenza di una polizza sul rischio Paese, certi Stati farebbero ancor più fatica a finanziarsi sul mercato e dovrebbero comunque pagare interessi più alti. Ma così come non è pensabile un sistema assicurativo che non si tuteli contro le frodi, è semplicemente assurdo che i destini del debito sovrano siano sottratti a qualsiasi controllo o verifica. Salvo quando il rischio del collasso diventa tangibile. Allora, come ci ricorda Roubini, devono intervenire i pompieri pubblici per spegnere gli incendi. E, si sa, il corpo dei pompieri è mantenuto dai contribuenti, non dai piromani.

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