Nel suo discorso davanti ai parlamentari italiani, il Cardinal Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza episcopale italiana, è tornato a parlare di “suicidio demografico”. Un’espressione che aveva già usato nella Prolusione all’Assemblea generale della Cei del 2010. “Il nostro Paese – ha detto mercoledì Bagnasco – vive un preoccupante calo delle nascite, che mi ha spinto a parlare di suicidio demografico: è il suicidio di una nazione che non guarda avanti perché ha paura del futuro; che vede aumentare rapidamente l’età media dei suoi cittadini, creando problemi di ordine economico e sociale a medio e lungo termine”. «Effettivamente, parlare di suicidio demografico non è esagerato», ci dice Luigi Campiglio, Docente di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.



Perché?

Faccio un esempio concreto. Nella classe di età 20-39 anni, che rappresenta il cuore della popolazione residente nel nostro Paese che studia o lavora, c’è stato un declino demografico drammatico: il numero dei nati in Italia nel 2003 era di quasi 16 milioni ed è diventato di 13,5 milioni nel 2011. Solo in questa fascia di età c’è stato quindi un calo di 2,5 milioni di unità. Nello stesso periodo, la popolazione straniera appartenente alla stessa classe anagrafica è passata da poco meno a poco più di un milione. Il risultato netto è una diminuzione di oltre un milione di persone nella fascia di età più importante della popolazione.



Quali sono le conseguenze economiche di questa situazione?

La principale è che il prodotto potenziale del Paese diminuisce. Questo perché abbiamo “perso” un milione di persone che potevano produrre e consumare beni e servizi. Quindi, decresce il potenziale di crescita del Paese. Non a caso l’Italia è stato l’unico Paese dell’Ue a 27 fra il 2000 e il 2010 in cui il Pil pro capite è diminuito. Inoltre, l’immigrazione, oltre a colmare solo in parte quantitativamente la diminuzione demografica, è rivolta solo a settori e attività che apportano poco valore aggiunto.

Dunque non possiamo aspettarci che sia l’immigrazione a “salvarci” da questo declino.



Non credo che possa farlo. Nel nostro Paese, infatti, il Pil reale per anno di istruzione di chi è occupato è diminuito del 15% tra il 2001 e il 2009. Ciò significa che la qualità delle nostre risorse umane (cioè il capitale umano) è diminuita: siamo un Paese in cui, rispetto al resto dell’Ue, l’educazione di livello superiore, è bassa. Tutto questo ha una conseguenza pratica: i paesi nei quali è alta la quota di occupazione con livello di istruzione elevata attraggono immigrazione di livello altrettanto elevato. L’Italia, invece, è un Paese in cui tale livello è relativamente basso e attrae quindi immigrazione di livello altrettanto basso. Ma non è tutto.

Ci spieghi.

La dispersione scolastica dei giovani immigrati di prima generazione è elevatissima. E questo avviene anche perché tale livello è già alto per i ragazzi italiani. Inoltre, gli immigrati sono e saranno i primi a “pagare” la disoccupazione crescente. L’immigrazione, quindi, ci potrebbe aiutare se fosse davvero oggetto di attenzione e non solo di parole.

 

Come mai ci siamo ritrovati con questo declino demografico?

 

La spiegazione statisticamente più significativa è che ci sposa (o si va a convivere) più tardi e quindi anche il primo figlio nasce più tardi. Per l’arrivo del secondo capita spesso che non ci siano le condizioni biologiche o economiche. La condizione economica dei giovani, in particolare la prospettiva futura di reddito, si è molto deteriorata. E il tasso elevato di disoccupazione giovanile in questo senso non aiuta. Un ulteriore problema è che gli immigrati che arrivano in Italia, e che si integrano, dopo pochi anni incontrano le stesse difficoltà delle famiglie italiane e quindi anche la natalità “straniera” diminuisce.

 

Bagnasco ha detto che dovranno essere le politiche familiari a rispondere a questa problematica. Cosa ne pensa?

 

Ritengo che solo un Paese sano e robusto, che almeno rimane stabile sul piano demografico (come la Francia), può pensare di proiettarsi nel futuro. Nemmeno la Germania è in questa situazione, anzi è come un gigante dai piedi d’argilla. C’è poco da fare: ci vuole una politica a favore della famiglia. Questo non significa solo facilitare la conciliazione famiglia-lavoro per le donne, ma vuol dire soprattutto migliorare il reddito famigliare permanente. E non, magari, aumentare il reddito di uno dei due coniugi a discapito di quello dell’altro. Il problema è che in Italia si dice che per la famiglia si fa di tutto e di più. Ma in realtà si è fatto il contrario.

 

In che senso?

Dopo la riforma Dini delle pensioni del 1996 il saldo della cassa assegni famigliari dell’Inps è crollato. In pratica, si è spostato l’equivalente di 8 miliardi di euro l’anno dalle famiglie alle pensioni. Questo vuol dire che negli ultimi 12 anni 100 miliardi di risorse sono state tolte alle famiglie.

 

Lei continua a ritenere necessaria l’introduzione del quoziente familiare?

 

Il quoziente famigliare è il meccanismo che nell’esperienza ha mostrato di saper realizzare maggiormente un’equità orizzontale tra le famiglie. Oggi, anche se esistono detrazioni e deduzioni familiari, l’equità orizzontale non c’è. Il punto è che si tratta di una riforma che richiede risorse. Che però consentirebbero alle famiglie di respirare, di consumare di più, ma soprattutto di investire in figli già presenti e anche desiderati. Perché questa situazione di “suicidio demografico” non è voluta. Anzi, il numero di figli desiderati corrisponde a circa uno in più rispetto all’attuale natalità. Situazione che porterebbe ad avere perlomeno una popolazione stazionaria.

 

(Lorenzo Torrisi)

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