Nel suo viaggio in Oriente Mario Monti ha speso gran parte delle il suo impegno per convincere i cinesi a investire in Italia. Nel frattempo, in Italia, non si fa economia di dichiarazioni contro l’evasione fiscale. Da ultimo, il ministro dello Sviluppo economico Corrado Passera che ha dissertato sull’ipotesi di una “sanzione sociale”contro di essa. Ora, vien spontaneo ragionare sul fatto che, in Italia, cinesi e correttezza fiscale non sia propriamente un connubio naturale. Claudio Borghi, editorialista de il Giornale e professore di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università Cattolica di Milano spiega a ilSussidiario.net come interpretare la situazione: «Partiamo dal presupposto – afferma – che, di solito, è sempre difficile affibbiare un nome e un cognome a chi evade le tasse perché, per definizione, non sono elementi noti». Detto ciò, «ogni volta che sono stati fatti dei controlli in aree geografiche dove c’era una grande quota di attività legate alla Cina – quali Via Paolo Sarpi a Milano o Prato – le irregolarità rilevate sono state numerose. E non solo dal punto di vista dell’evasione fiscale. Si estendevano, infatti, al lavoro in nero, o alla carenza di condizioni igieniche. L’unico dato oggettivo, quindi, è che puntualmente abbiamo assistito fenomeni sconfortanti».
Non solo: «Già di per sé i dati relativi al sommerso sono impossibili da definire e diffido di chi, periodicamente, li fornisce. Si tratta di numeri, a livello generale, sconosciuti; da qui, poi, ad affermare in quanto consiste, nel dettaglio, il sommerso cinese, siamo di fronte ad un triplo salto carpiato». Tornando all’invito di Monti: «Bisogna distinguere le attività dei cinesi immigrati in Italia da quanto auspica il premier, ovvero gli investimenti diretti. In tal caso, prevalentemente, è presumibile che Monti faccia riferimento all’acquisto di titoli di Stato. Del resto la Cina è uno dei più grandi acquirenti al mondo di debito estero». La questione potrebbe assumere una piega diversa se, invece che limitarsi all’acquisto di debito pubblico, la Cina intendesse investire in infrastrutture o aziende italiane. «Stiamo pur sempre parlando di investimenti finanziari – replica Borghi -. Cosa ben diversa dall’ipotizzare che un cinese venga apposta in Italia per aprire un’azienda, considerando il costo della loro manodopera…».
Non c’è da pensare, in ogni caso, che siano tutte rose e fiori. «Ogni volta che qualche imprenditore straniero acquista della aziende italiane, un marea di persone si straccia le vesti. Con qualche ragione. Parliamo, infatti, di un mondo che adotta regolazioni, per usare un eufemismo, “blande”; specie se raffrontante ai pesanti vincoli cui devono sottostare le aziende italiane. Se noi, oltre ad autotassarci, lasciamo libero il campo a chi agisce senza vincoli e limitazioni, dandogli la possibilità di competere con il nostro sistema, diamo, quanto meno, la zappa sui piedi da soli».