Di tanto in tanto, i numeri dell’Istat aggiungono, al quadro a tinte fosche, toni cupi; le nuove cifre sulla produzione industriale descrivono un contesto in sofferenza, con le imprese costrette ad avanzare nel pantano della crisi con le zavorre ai piedi.  «A febbraio 2012 – spiega l’Istat – l’indice destagionalizzato della produzione industriale è diminuito dello 0,7% rispetto a gennaio. Nella media del trimestre dicembre-febbraio l’indice è diminuito dell’1,0% rispetto al trimestre immediatamente precedente». Rispetto a febbraio 2011, inoltre, l’indice è calato in termini tendenziali del 6,8%. Infine, «nella media dei primi due mesi dell’anno la produzione è scesa del 5,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente». Povere aziende, vien da dire: neglette, bistrattate e, adesso, pure vilipese. La Fornero, infatti (che riformando le pensioni si era dimenticata di alcune migliaia di lavoratori che sarebbero rimasti senza salario e senza pensione), ha stabilito che gli esodati sono colpa loro: «hanno mandato fuori i dipendenti a carico del sistema pensionistico pubblico e della collettività». E’ così? E, soprattutto, sono messe così male? IlSussidiario.net lo ha chiesto a Paolo Preti, direttore del master Piccole imprese della Sda Bocconi. «Per il momento – dice -, siamo a metà aprile, il nuovo anno è iniziato da poco, ed è presto per fare valutazioni esaustive. Sta di fatto che, nel 2011, anno centrale per la crisi, l’Italia si è dimostrata seconda solo alla Germania, in Europa, per capacità di export. Quindi: sarà anche vero che cala la produzione industriale; è altrettanto vero che a dicembre i segnali erano positivi. Significa che, come  allora i dati andavano registrati senza eccessivi entusiasmi, oggi vanno registrati senza eccessive preoccupazione. Dovrebbe essere questo l’atteggiamento da mantenere sino al termine della crisi».



Ammesso, dunque, che i segnali negativi sussistano, resta da capire se il governo vi stia rispondendo in maniera adeguata. «Va rilevato, anzitutto, che la presa di posizione di Confindustria rispetto alla riforma del mercato del lavoro è estremamente critica. Le aspettative riversate in essa sono rimaste inevase, mentre le imprese non saranno incentivate ad assumere. Il provvedimento ha lasciato la situazione pressoché invariata. Tant’è vero che ha ricevuto l’assenso anche dalla Cgil; anche se sosterrà che gli è stato estorto e che lo ha concesso per spirito di responsabilità. Ciò detto, riformare il mercato del lavoro non è determinante per rilanciare la produttività». Peccato che neppure le riforme che, invece, lo sono siano state messe in cantiere. «Il premier sta, giustamente, rilanciando l’immagine internazionale del nostro Paese recuperando quanto di recente è andato perduto; tuttavia, sul fronte della competitività interna, non è stato fatto pressoché ancora nulla». Alla luce di ciò, ci chiediamo se insistere nel tentativo di calamitare investimenti stranieri non possa determinare pericolosi squilibri. «Monti – spiega Preti -, nelle vesti di rettore e presidente della Bocconi, fu (meritoriamente) promotore dell’internazionalizzazione dell’Università. Attirò studenti dall’estero, selezionò docenti stranieri, favorì l’english speaking di quelli italiani e allacciò rapporti con svariate università non italiane. L’opera, allora pioneristica, ne ha fatto forse l’Ateneo italiano più aperto al mercato straniero». C’è un però. «Gli studenti, la maggior parte dei quali lavorerà nel proprio Paese, hanno bisogno – in termini di contenuti delle lezioni e tipologie di corsi – di conoscere le peculiarità dell’economia italiana, costituita da una costellazione di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare.  Il rischio, quindi, senza un opportuno bilanciamento, è quello di avere laureati preparatissimi, in grado di operare sui mercati finanziari londinesi, ma non altrettanto competenti su quelli italiani». Non è escluso che l’impostazione concettuale del presidente della Bocconi si stia riflettendo sulla sua azione di governo nelle vesti di premier. «E’ presumibile che Monti stia percorrendo, a livello di nazione, una cammino pioneristico analogo a quello che intraprese per la Bocconi». Quindi? Cosa rimane da fare all’esecutivo? «Le nostre imprese continuano a esportare. Ma fanno fatica, a causa delle loro ridotte dimensione. Occorrerebbe, anzitutto, un coordinamento tra le varie istituzioni pubbliche nate per aiutarle ad approdare sul mercato estero, quali l’Ice o la Sace. Sarebbe utile, inoltre, favorire la nascita di grandi aziende della distribuzione in grado di veicolare i prodotti di quelle piccole all’estero. Si dovrebbe, poi, favorire la loro aggregazione; pur restando piccole se fossero, ad esempio, consorziate, esporterebbero più facilmente». Da questo punto di vista, «esiste una legge sulla rete di imprese, risalente al 2009, che andrebbe potenziata». 



La questione creditizia, infine: «oltre ad aver difficilmente accesso ai prestiti, molte chiudono perché non riescono a esigere i propri crediti nei confronti della pubblica amministrazione. Ebbene: l’esecutivo ha il dovere di ridurre la spesa per pagare i propri debiti». Tornando alla Fornero: «E’ gravissimo – commenta Preti – che dopo tre mesi non si sappia ancora con precisione quanti sono gli esodati. Il ministro farebbe quindi bene a guardarsi in “casa propria”. Inoltre, attribuire alla imprese la colpa degli esodati la dice lunga sui suoi ascendenti politici. Si tratta, infatti, di affermazioni che vanno di pari passo con il definire gli imprenditori “padroni”». Va fatta una precisazione:  «purtroppo, ci sono aziende che, effettivamente si comportano così. Tuttavia, sono una sparuta minoranza e, prevalentemente, hanno grandi dimensioni e proprietà multinazionale. Non rappresentano di certo – conclude –  il nostro sistema di sviluppo».

 

(Paolo Nessi)