Ieri le borse hanno ripreso un po’ fiato, con Piazza Affari che ha chiuso in rialzo del 2,48%. Lo spread è leggermente sceso, ma resta pur sempre sopra la soglia dei 400 punti base. Le incertezze dopo il lunedì nero dei mercati sono però tutt’altro che fugate. I timori sul futuro dell’Eurozona, vista anche la situazione politica in Francia e Olanda, permangono intatti. Per Mario Deaglio, Professore di Economia internazionale all’Università di Torino, è bene che l’Europa cominci a mettere in discussione le politiche di austerità finora messe in campo. In questa intervista ci spiega perché e come farlo.
Tra le cause del lunedì nero dei mercati ci sono state le elezioni in Francia e la caduta del governo in Olanda: eventi che suonano come una bocciatura della politica di rigore della Germania. Come mai, secondo lei, si è arrivati a questo?
La politica di rigore tedesca comporta ripercussioni sensibili sul bilancio famigliare del cittadino medio europeo, con una diminuzione della sua capacità di spesa e, in certi casi, del suo tenore di vita. Questo per un po’ è stato accettato dalla popolazione, ma adesso che le misure di austerità sembrano mordere di più sta crescendo il numero di coloro che vi si oppongono, con ovvi riflessi politici in diversi paesi, persino in Germania, dove è in ascesa il “partito dei pirati”, una della maggiori espressioni europee dell’antipolitica. È un sintomo di un disagio sociale che si fa sempre più forte e che si rifà a particolari istanze.
A che cosa si riferisce?
Il cittadino medio europeo comincia a porsi delle domande: in che misura dobbiamo rispondere a ciò che i mercati ci chiedono? Perché dobbiamo rientrare dai deficit rapidamente e non in più anni? Perché un deficit al 3% del Pil prima andava bene e adesso no, mentre gli americani possono averlo al 9% senza che nessuno gli dica niente? Questo è quanto i cittadini cominciano a chiedersi ed è tra le cause del crescente voto contrario all’austerità.
Questa situazione mette in crisi, prima ancora della sua nascita ufficiale, il nuovo Trattato europeo, il Fiscal Compact.
Chiamarlo Trattato è una forzatura. Si tratta di un accordo raggiunto in breve tempo sotto la pressione dei mercati e sotto la guida della Germania. Finito questo tipo di emergenza estrema, però, c’è una parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche che ha fatto chiaramente capire che non si riconosce in questa intesa.
Ci troviamo in questa situazione quando non sono passati neanche due mesi dalla seconda operazione Ltro della Bce, che era stata vista da molti come la ricetta “anti-tedesca”: vuol dire che la liquidità immessa era insufficiente o che questo tipo di politica è inadeguata?
La ripresa non può arrivare da una politica del genere e lo si può capire dall’esempio americano: due grandi operazioni di quantitative easing su larga scala che stanno solo tenendo a galla l’economia. È vero che c’è una crescita del 2-2,5%, però la popolazione aumenta intorno all’1,7-1,8%, quindi non è che le cose stiano andando benissimo. È un po’ come dare l’ossigeno al malato: è una misura che non risana, ma che mantiene in vita in qualche modo il sistema.
Secondo lei, quale potrebbe essere una politica migliore?
Probabilmente quella che aveva indicato Strauss-Khan: portare il limite dei deficit europei dal 3% al 4% del Pil. In questo modo si darebbe un minimo di allargamento alla spesa pubblica senza pretendere questi tagli ossessivi che credo alla fine non faranno bene a nessuno, nemmeno alla stessa Germania.
La soluzione potrebbe essere quindi quella di rivedere il Fiscal Compact, in modo che non sia così rigido sul rientro dei deficit?
Sì, anche se bisognerebbe guardare anche alla parte di lungo termine del Fiscal Compact. Sembra, infatti, francamente irrealistico che tutti i paesi nel giro di 20 anni arrivino a un debito pubblico pari al 60% del Pil: se dovessimo farlo gradualmente dovremmo avere in Italia un avanzo pari al 3% del Pil ogni anno. Certo, si può anche vendere il patrimonio pubblico per soddisfare questa richiesta, ma ci si può chiedere se ne valga la pena visto che le privatizzazioni hanno finora dato dei risultati soltanto parziali (sono andate bene in alcuni settori, in altri no). Sarebbe opportuno comunque stabilire una sorta di contropartita al Fiscal Compact, che potrebbe consistere in un Fondo salva-Stati senza limiti. Si tratterebbe di una forte decisione politica, un po’ come hanno fatto gli svizzeri con la loro moneta.
Ci può spiegare meglio questo passaggio?
La Svizzera ha deciso di frenare la rivalutazione del franco svizzero ponendo il limite per il cambio con l’euro a 1,20. Le autorità non hanno detto quante risorse ci metteranno, ma hanno detto che difenderanno quel limite. Nel caso del Fondo salva-Stati, invece, è stato indicato un importo, cosa che permetterebbe ai mercati di fare i conti e di impegnare nella speculazione contro l’euro risorse superiori a quel limite. Il fatto di non porre limiti al Fondo salva-Stati presuppone un forte impegno politico, ma in questo modo non ci sarebbero parametri di riferimento per chi volesse attaccare l’euro: scommettere contro diventerebbe allora più rischioso. Il Fiscal Compact quindi si può approvare se c’è una contropartita del genere. La sola austerità è un depressivo che non ci può andar bene: dobbiamo mettere in circolo anche un po’ di ricostituente.
Lei ha scritto che “la ricerca di un compromesso tra disagio finanziario e disagio sociale dovrebbe essere al primo punto nell’agenda di quanti, in Italia e nel resto d’Europa, si apprestano a mettere a punto nuovi progetti politici”. Cosa intendeva dire?
Che occorre cercare di ripartire i sacrifici. Se c’è da perderci, probabilmente devono farlo un po’ tutti e non una parte sola. È vero che chi aveva capitali investiti ha subito delle perdite da questa crisi, ma è anche vero che c’è una massa di titoli derivati che nel loro complesso ne sono rimasti abbastanza immuni. Forse si potrebbe far pagare un poco anche a loro.
(Lorenzo Torrisi)