Poteva andare peggio, certo. Ma anche molto meglio. E’ pur vero che i collocamenti dell’asta di Btp odierna si sono attestati su posizioni soddisfacenti, con 5,946 miliardi di euro di emissioni (il range previsto era compreso tra 3,75 e 6,25 miliardi); ma si tratta di magra consolazione. Lo spread, infatti, è ancora lì, attorno ai 400 punti, il tasso di rendimento dei Btp a 5 anni è salito al 4,86% dal 4,18% dell’asta di marzo, mentre quelli decennali salgono dal 5,24% al 5,84%. Insomma, le promesse e le speranze di riaccreditamento presso i mercati internazionali sono rimaste, finora, inevase. All’andamento poco virtuoso pare abbia contribuito anche il declassamento della Spagna. Sta di fatto che «la crisi è tutt’altro che superata – dice Marco Di Antonio, ordinario di Economia presso l’Università di Genova raggiunto da ilSussidiario.net -. Siamo in un clima di grave tensione ove, nonostante le previsioni di ripresa, l’economia continua ad andare male. E potrebbe peggiorare. Le manovre restrittive, infatti, destinano alla recessione, mentre al contesto di scarsa crescita e congiuntura internazionale negativa, si somma il fatto che gli Stati sono gravati da debiti pubblici estremamente elevati».



Siamo, in sostanza, nella seconda fase della crisi. «La prima – continua – ha riguardato il sistema bancario e finanziario (che ne è stato in parte la causa); ora, i problemi si sono trasferiti agli Stati. Essi, infatti, si erano impegnati nel salvataggio diretto delle banche – un atto dovuto per evitare il tracollo finanziario -, utilizzando in misura consistente il denaro dei contribuenti. Se gli istituti di credito hanno in parte fermato l’emorragia, la situazione di estrema fragilità, tuttavia, persiste». Resta da capire cos’abbia a che fare il downgrade spagnolo con l’aumento del rendimento dei titoli italiani. «La speculazione – spiega – individua una situazione di debolezza, ipotizza che il “banco salti” e scommette sul fallimento dei più deboli». I più deboli, oltre a Grecia Portogallo e Spagna, siamo noi. «Chi specula prevede che dopo la Spagna tocchi all’Italia e dopo l’Italia alla Francia, i mercati della quale sono stati anch’essi condizionati dal declassamento iberico, seppur in misura minore rispetto ai nostri».



Un effetto domino, in sostanza. Al quale si aggiungono ulteriori elementi poco rassicuranti. «L’attacco speculativo nei confronti dell’Europa da parte di soggetti internazionali considera il nostro Paese una testa di ponte. Le dimensioni della nostra economia e del nostro debito sono tali da far presumere, in caso di crac, il crollo dell’intero sistema europeo». Da soli, in ogni caso, non possiamo salvarci. «La crisi è europea. Di conseguenza la soluzione non può che essere individuata anche livello comunitario». Per Di Antonio, in buona parte si sta andando in questa direzione. «Si sta cercando di affrontare le criticità su diversi livelli: gli Stati stanno procedendo nel tentativo di risanare i conti e di varare misure per la crescita; l’Europa, con il fiscal compact, sta introducendo una sorta di coordinamento economico e fiscale in grado di imporre agli Stati il rispetto di certi parametri; sul fronte finanziario, infine, stanno assumendo definizione una serie di strumenti in grado di aiutare i Paesi in difficoltà, quali l’Efsf».



Da questo ultimo punto di vista, gli sforzi non sono ancora sufficienti. «Il Fondo salva Stati ammonta a circa 700 miliardi di euro, ritenuti dai mercati del tutto inadeguati. Contestualmente, ci sono ancora molte resistenze agli Eurobond, mentre la governance europea – e soprattutto la Germania – mostrano dubbi e incertezze sul da farsi quando, addirittura, non esprimo il completo disinteresse rispetto alla possibilità che alcuni Stati facciano default». 

La Bce, infine: «Dobbiamo ricordare che il suo obiettivo principale è il contenimento dell’inflazione e quindi i suoi margini di manovra per stimolare l’economia sono limitati. In ogni caso, le due innovative operazioni Ltro di Draghi (circa 1000 mld di prestiti a lungo termine e all’1% alle banche) sono state un colpo di genio e hanno sortito effetti positivi». Esse, secondo il professore, hanno percorso l’unica strada al momento praticabile: «Rifinanziarie, cospicuamente, le banche, anziché gli stati, contando sul fatto che parte di queste somme fossero poi utilizzate dalle banche per sostenere il debito pubblico (come in effetti è avvenuto)». 

 

(Paolo Nessi)