Al calar del berlusconismo, ma con il Cav. ancora regnante, la vulgata maggioritaria era la seguente: il premier Silvio Berlusconi ha ormai credibilità internazionale pari a zero, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti castra ogni tentativo di crescita, il sottosegretario Gianni Letta è il dominus di operazioni di potere poco commendevoli, oltre che grand visir dei servizi segreti.



A distanza di qualche mese, con Mario Monti regnante, la situazione è pressappoco la seguente: il premier Monti ha ridato credibilità internazionale all’Italia, ma lo spread fra Btp e Bund galleggia intorno ai 400 punti base; si comporta come Tremonti, ovvero è tutto dedito al rigore, e in più ha una tendenza ad aumentare le imposte; e la tanto agognata crescita stenta a ripartire nonostante un superministero dello Sviluppo economico, proprio come quello che Monti da editorialista de Il Corriere della Sera consigliava al governo Berlusconi; per non parlare della gestione dei servizi segreti che, con Letta fuori da Palazzo Chigi, non ha particolarmente brillato con il governo tecnico (basti pensare al caso dei marò in India).



Tutto questo ha una spiegazione, anzi due. Prima spiegazione: l’economia decresce non soltanto perché a Roma si pensa a rispettare il vincolo del pareggio del bilancio dal prossimo anno, ma perché l’Europa ha istituzioni dominate dal verbo tedesco improntato all’austerità, premessa per una quasi certa recessione. Seconda spiegazione: non serve cambiare inquilini nei palazzi della politica, magari sotto la spinta di ondate moralisteggianti o giustizialistiche, per cambiare politiche.

E a ben vedere questo succede non solo nei partiti e nel governo, ma anche nell’economia e nella finanza. Bastano pochi esempi. Si prenda il caso di Finmeccanica, il gruppo attivo nella difesa e nell’aerospazio che è controllato dal Tesoro. Dopo una serie di inchieste giudiziarie, il presidente Pier Francesco Guarguaglini è stato di fatto dimissionato. L’uscita del manager che ha fatto rinascere e dato un rilievo internazionale al gruppo pubblico, magari con qualche controversa acquisizione (come l’americana Drs) e con operazioni dai contorni dubbi sui quali la magistratura sta indagando, ha fatto gioire i più: finalmente, monda di Guarguaglini e moglie, Finmeccanica tornerà a sfolgorare come in passato.



Non è andata così. Gli addebiti all’attuale numero uno, Giuseppe Orsi, già ai vertici di Agusta Westland, sono tutti da accertare dai magistrati, ma chi per anni o per decenni ha lavorato ai vertici dello stesso gruppo difficilmente può vestire i panni del moralista. D’altronde quello che la stampa definisce come astro nascente del gruppo e magari prossimo numero uno, Alessandro Pansa, dal 2001 è stato condirettore generale e chief financial officer del gruppo. Insomma, ha firmato tutti i bilanci degli ultimi dieci anni di Finmeccanica, compreso l’ultimo con le maxisvalutazioni.

E che dire di Generali? Si ricorderà la canea pressoché unanime all’epoca della presidenza di Cesare Geronzi. La corazzata internazionale del Leone di Trieste era inquinata da un presidente che chiedeva conto di numeri e operazioni al top management, incalzava l’ad Giovanni Perissinotto, fino alla lesa maestà di un’intervista al Financial Times in cui ipotizzava per Generali “operazioni di sistema”. L’egocentrismo, i modi ruvidi e l’inedita volontà di apparire del banchiere di Marino provocarono l’offensiva di Diego Della Valle, assecondato da Mediobanca, da Perissinotto e alla fine dagli altri azionisti di Generali.

Finalmente con il defenestramento di Geronzi, il Leone potrà tornare agli antichi fasti, si disse. E in più, dopo aver abbattuto il birillo Geronzi sarà facile abbattere gli altri birilli chiamati Berlusconi e Letta. Ma due giorni fa si è scoperto con un’intervista di Leonardo Del Vecchio, azionista di Generali, che: il titolo del Leone langue, la redditività del gruppo assicurativo è più bassa di quella dei concorrenti e alcune operazioni meramente finanziarie costano parecchio alla compagnia triestina. Praticamente, parola più parola meno, quello che pensava Geronzi e molti altri all’interno del cda di Trieste, ma che nessuno aveva esternato. Però nessuno si era spinto, come il patron di Luxottica, a chiedere le dimissioni di Perissinotto.

Ma attenzione: come al solito, in Italia, la situazione è grave, ma non è seria. Così il giorno dopo Del Vecchio, in assemblea, non solo non chiede le dimissioni di Perissinotto, ma approva il bilancio di Generali firmato da Perissinotto. La coerenza tra parole e azioni, forse, costa troppo, sia ai politici che ai capitalisti.

 

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