“Questa legge è molto cattiva”. E ancora. “Meglio non far nulla piuttosto che votare una legge così”. Queste dichiarazioni di Emma Marcegaglia, presidente uscente di Confindustria, campeggiavano ieri pomeriggio nella pagina iniziale del sito del Financial Times sotto il titolo “Gl imprenditori italiani si schierano contro la riforma del lavoro”. “Questa presa di posizione rappresenta un pesante colpo alla credibilità del governo tecnocratico di Mario Monti” scrive Guy Dinmore, il corrispondente da Roma che a inizio di settimana aveva scritto un articolo dal titolo “La luna di miele di Mario Monti è finita”, in cui sosteneva che la vera preoccupazione dei mercati non riguardava la riforma del mercato del lavoro (in un modo o nell’altro gli italiani avrebbero trovato un compromesso), ma la perdita di iniziativa politica e di carisma dell’esecutivo tecnico. “La cosa migliore per l’Italia – commentava il solito Nouriel Roubini – è di confermare, in anticipo, questo governo anche per la prossima legislatura”.
Queste opinioni lasciano il tempo che trovano. Ma meritano di essere riportate perché Financial Times e The Wall Street Journal, ovvero i due giornali che nei giorni scorsi hanno lanciato l’allarme sulla necessità di un’ulteriore correzione dei conti italiani, sono senz’altro “i sacri testi” che formano l’opinione dei money managers che ogni giorno distribuiscono sullo scacchiere globale i miliardi di dollari che orientano la tendenza dei mercati. Per questi signori, la riforma del lavoro, che produrrà effetti in tempi medio-lunghi, al pari dei provvedimenti sulle liberalizzazioni (nessuno di loro prende un taxi quando visita Roma o Milano…), ha un valore relativo. Quel che conta non è il riequilibrio strutturale del Paese, così come è stato suggerito dalla celebre lettera dello scorso agosto della Bce, bensì la sostenibilitàdi questo percorso da parte di un governo credibilee che, in quanto tale, possa avviare un’inversione di tendenza durevole. Cosa di cui si comincia a dubitare.
Non a caso, a vedere l’andamento dei flussi sui titoli del debito italiano, si osserva in questi giorni un’anomalia: le scadenze lunghe, vedi i decennali, reggono meglio delle scadenze brevi. È il sintomo del fatto che la finanza internazionale crede che il nostro Paese, nel lungo termine, sia più robusto di altre nazioni in crisi. Ma nessuno scommette sulle prospettive a breve. Ovvero, una volta esauriti gli acquisti a costo zero delle banche italiane (i quattrini investiti nei Btp a due anni sono arrivati dai prestiti a tre anni della Bce), i compratori sono in pratica scomparsi.
Dietro il rinnovato nervosismo della finanza internazionale, insomma, non c’è l’ombra dello scontro con la Cgil o la paura della frattura con uno o più partiti della coalizione, ma la paura che la violenza della crisi, assieme ai sacrifici chiesti a italiani (e spagnoli) possano rivelarsi un rimedio troppo traumatico, anzi insopportabile. Come ha ben scritto Federico Fubini su Il Corriere della Sera i money managers di Pimco, il più importante fondo obbligazionario del mondo, ormai non studiano più le tabelle sulla crescita del debito e del fabbisogno italiano, bensì guardano con preoccupazione crescente la discesa, in picchiata, del Pil cui contribuiscono vari fattori: la stretta del credito; i ritardi nei pagamenti della Pubblica amministrazione; l’impatto psicologico della paura per la perdita del posto di lavoro che ha alimentato il tabù dell’articolo 18; la caduta dei consumi.
Se si va avanti così il Pil italiano rischia una caduta di 1,5 punti nel 2012 (o forse addirittura di 2,5 punti). In termini di entrate fiscali, un punto di Pil vale 7 miliardi circa. Ovvero, come accade nel mito di Sisifo, l’Italia si è condannata a una sfida senza fine: da una parte con enormi sacrifici, si svuota il deficit; dall’altra, si creano nuovi “buchi” sul fronte delle entrate.
Sarà necessaria una nuova manovra? Probabilmente no, perché in termini contabili il governo è stato previdente. Ma il rischio è che, andando avanti così, si renda inevitabile una nuova manovra politica. Il governo Monti ha, con successo, affrontato la prova più dolorosa ma anche, sul piano concettuale, più facile. Con una manovra drastica e dolorosa si sono aumentate le tasse e ridotti i trasferimenti ai territori. In questo modo si è fronteggiato, con metodo assolutamente tradizionale, la crisi fiscale del Paese. Ora, però, si profila un malessere ben più insidioso: la crisi delle partite correnti ovvero il Paese, che produce di meno e ha meno risorse a disposizione per gli investimenti, si condanna a risparmiare di più per far fronte alla caduta dei flussi finanziari dall’esterno.
La crisi dell’Ue ha provocato non pochi danni. Forse il più grave è stato la regionalizzazione del credito. Ormai le banche tedesche imprestano soldi solo in Germania, i francesi pure. Paesi con la bilancia dei pagamenti in deficit come l’Italia (vittima di un suicidio in materia di energia che ci verrà rimproverato da figli e nipoti) non trovano più istituti esteri disposti a finanziare lo sbilancio. Occorre tirare la cinghia, ma, così facendo, si rischia di dimagrire ancor di più. Per uscire dal circolo vizioso è necessario varare una politica europea di investimenti attraverso l’istituzione degli eurobond, assieme alla creazione di autorità di vigilanza in grado di garantire i creditori sull’uso di queste risorse.
Monti lo sa: la sua battaglia politica più importante la gioca infatti sul terreno europeo. Altrimenti queste riforme verranno affogate da un senso di frustrazione che coinvolgerà imprenditori e lavoratori. Oltre a giovani e cinquantenni senza lavoro e senza pensione.