Sulla foce del fiume delle Perle, appena a nord di Hong Kong e poco distante da Macao, le mappe disegnano una baia profonda e dai tratti regolari. È la baia di Shenzhen, oggi sovrastata dalla città omonima. Alla fine degli anni ‘70, quando contava qualche migliaio di pescatori, Shenzhen divenne la sede del primo esperimento capitalista in territorio cinese. Oggi il suo parco industriale e tecnologico conta undici chilometri quadrati di grandi aziende, capaci di esportare annualmente prodotti elettronici e informatici per quasi tre miliardi e mezzo di dollari. Tra queste c’è China Great Wall Computer, azienda fornitrice di colossi industriali quali Philips, Lenovo, LG eletronics, Dell, Hewlett-packard e Acer (dati Bloomberg).
Nella precedente puntata di questa breve indagine, abbiamo preso ad esempio di economia reale un frullatore e abbiamo citato gli altri elettrodomestici che fanno ormai parte del nostro quotidiano. Per molti di questi beni, il processo produttivo inizia lungo la baia di Shenzhen. China Great Wall Computer con i suoi 59mila dipendenti e le aziende del suo indotto quali Shenzhen Data Power, Shenzhen SED Industry, Shenzhen Jingyu, Shenzhen Sangda producono in larghissima parte per i mercati occidentali. I produttori di Shenzhen si appoggiano ai container di aziende come China International Marine Containers, basata a Shenghen e leader mondiale nel settore della logistica, per poi inviare la merce sulle navi delle grandi compagnie marittime quali COSCO, China Shipping Group, Sinotrans Shipping.
Facendo i conti della serva, il giro di affari dei nomi citati in queste righe raggiunge la cifra non trascurabile di trenta miliardi di dollari annui. Di fronte a tali numeri, viene da domandarsi cosa potrà mai fare la tipica impresa italiana, quella da cinque dipendenti e un capannone, per intenderci. Molto più di quanto si possa credere; ma prima di passare alle riflessioni, è necessario percorrere fino in fondo il ciclo produttivo che passa sotto il nome di globalizzazione.
Una volta imbarcate sui grandi vettori internazionali, le merci cinesi solcano i mari alla volta di Los Angeles, Rotterdam, Anversa, Amburgo e Dubai. Per quanti ritengono che il fenomeno del commercio internazionale sia piuttosto recente e improvviso, è interessante notare che le rotte marittime sono le stesse dei pirati e delle baleniere di cui abbiamo letto nei romanzi per ragazzi. Romanzi principalmente in lingua inglese, così come inglese è il diritto dei contratti che regolano il commercio internazionale.
Gli oltre 20mila container che ogni anno sbarcano sulle banchine di Rotterdam, Anversa e Amburgo, oltre al diritto inglese, hanno un caratteristica in più. Entrano in una zona dove diciassette paesi si sono dati una moneta unica senza dotarsi di governo comune. È un’anomalia che ha comunque raggiunto obiettivi ragguardevoli: oggi l’euro circola liberamente dall’Estonia al Portogallo, raggiungendo le tasche di 317 milioni di abitanti.
Si tratta del “traguardo più audace dell’unità europea”, ha dichiarato Jean-Claude Trichet pochi giorni fa, durante la sua prima intervista da quando ha lasciato la presidenza della Bce. Poco dopo, però, l’ex numero uno dell’Eurotower – e tra i padri putativi della moneta unica – ha aggiunto sibilino: “Oggi bisogna monitorare gli squilibri competitivi”. Un giornalista impertinente avrebbe fatto notare all’ancien president che sul più grande di questi squilibri l’euro ci ha campato per dieci anni. E con quali risultati, oggi è evidente a tutti.
Lo squilibrio in questione è quello che parte da centri come Shenzhen, dove il settore industriale paga un salario medio mensile – se diamo fiducia alle statistiche ufficiali cinesi – equivalente a circa 1100 euro. Considerato che da quelle parti si lavora 7 giorni su 7 e le ore lavorative giornaliere arrivano facilmente a 12, fanno tre euro lordi all’ora. Senza diritti, né garanzie sociali.
All’altro capo della filiera, l’Europa ha accettato di restare in costante deficit commerciale perché il disavanzo di cassa sembrava un toccasana per la moneta unica: a ogni emissione di debito sovrano, l’euro limava i differenziali tra i paesi membri fino a rendere – dal 2005 agli inizi del 2008 – lo spread tra Germania e Grecia pari a zero. Ciliegina sulla torta, la moneta unica dava nuova capacità di indebitamento al sempre meno sostenibile welfare europeo.
Purtroppo, però, una moneta che fa debito ma è incapace di fare crescita ha giorni difficili davanti a sé e questo Jean-Claude Trichet avrebbe potuto apprenderlo dalle vicissitudini della Banca Reale di Francia ai tempi di Filippo d’Orleans. Per questo, i container che arrivano nei porti europei sull’Atlantico importano all’interno dell’Unione europea una competizione destabilizzante, che mette in pericolo l’economia reale del vecchio continente e ci rende felicemente indebitati, ma inesorabilmente più poveri.
Non che sulla baia di Shenzhen il futuro appaia più roseo. Ridurre i salari all’osso e svalutare il renminbi rende l’export competitivo ma nell’economia del Dragone di innovazione non c’è alcuna traccia. Come cresce allora la Cina? A leggere i dati di un’inchiesta di Bloomberg Businessweek, si direbbe che i cardini dello sviluppo cinese siano lo spionaggio industriale e la sistematica violazione delle norme sui brevetti. I furti appurati di segreti industriali riguardano AkzoNobel, Apple, Boeing, CME Group, Dow Chemical, DuPont, EnfoTech, Ford, General Motors, Goodyear, L-3 communications, Motorola e AMSC. In quest’ultimo caso, è stata rubata tecnologia per energie rinnovabili con un danno stimato in un miliardo di dollari. A quel punto, ricerca e produzione non avanzano più insieme e per quest’ultima è sufficiente la manodopera a tre euro l’ora (che nella sola Shenzhen raggiunge la cifra di tre milioni e mezzo di persone).
Questo modello economico, e la visione della persona che ne deriva, sono una scommessa al ribasso che, come dimostrano i crescenti focolai di protesta in Cina, è già persa in partenza. Per questo la prima parte di questa breve indagine si è conclusa auspicando una connessione tra economia reale ed euro: la prima tiene insieme investimenti, ricerca e produzione, mentre il secondo, in un mondo in cui prezzi delle materie prime, inflazione e tassi di interesse sembrano ormai schegge impazzite, ha bisogno del tessuto economico europeo per diventare moneta di crescita e non annegare in un mare di debito.
Il finanziamento delle infrastrutture europee, le borse di studio, le collaborazioni tra università e aziende, gli sgravi fiscali alle imprese sono alcuni esempi di come l’euro può rilanciare lo sviluppo. A quel punto, una produzione in euro implicherà un lavoro educativo, prima ancora che industriale: riportare la persona al centro della crescita, anche quando la crisi imperversa e il capannone è trasferito in Europa dell’est o in Estremo oriente.
Qualcuno obietterà che i rischi all’orizzonte sono molti, compreso quello, serio, di diventare poveri. Ma la paura, come disse Franklin D. Roosevelt durante la crisi del ‘29, è la sola di cui aver paura e poveri, anche se è facile dimenticarlo, lo siamo già stati. Se, invece, volteremo le spalle a questa sfida, l’Europa si ridurrà a un’enorme area di scambio, mentre l’euro diventerà una sorta di gettone per gli autoscontri tra paesi europei.
(2 – fine)