La scure del Governo Monti ha tagliato anche l’Agenzia per il Terzo settore, una struttura attiva da una decina di anni, incaricata del compito di vigilare sul mondo del volontariato e del non profit. Il decreto ministeriale reca la data del 23 febbraio. Da quel momento, nonostante le preoccupazioni che la soppressione ha provocato, non si conoscono quali siano le intenzioni del Governo, visto che la questione coinvolge un “mondo” articolato e crescente nel quale si muovono più di 400mila istituzioni di varia natura per un giro finanziario stimato in 40 miliardi annui.
Le dimensioni del comparto mettono bene in evidenza come l’Agenzia, con i modesti mezzi a disposizione e nonostante l’autorevolezza dei presidenti e dei consiglieri succedutisi nel tempo, non fosse in grado di fare fronte alla mole di impegni che aveva in carico. È indispensabile, tuttavia, che il Governo mandi rapidamente un segnale chiaro su ciò che intende fare nel settore delle Onlus, in sostituzione dell’Agenzia.
La materia è molto delicata da parecchi punti di vista. C’è innanzitutto da svolgere un’indispensabile funzione di vigilanza, consistente nel separare il grano dal loglio. L’esperienza insegna che tante sono le Onlus fasulle (talune sono state sanzionate con un provvedimento di chiusura negli ultimi cinque anni) che si avvalgono impropriamente dei vantaggi fiscali e delle regole più flessibili nell’uso della manodopera, riuscendo così a entrare, in condizioni di dumping sociale, nel mercato dei servizi alla persona. Ma, soprattutto, occorre ragionare in prospettiva, in chiave di sussidiarietà tra un sistema pubblico in affanno e un insieme di reti private che, nel campo dell’assistenza alle persone, diventa ogni giorno di più ampio e insostituibile per fare fronte ai problemi immensi che deriveranno dai trend demografici e dall’invecchiamento della popolazione.
Vi è un segmento importante (e in aumento) di concittadini che non riceve una protezione adeguata: si tratta dei soggetti non in grado – a causa della loro condizione psico-fisica – di provvedere autonomamente alle più elementari funzioni vitali. È il caso dei “grandi vecchi” (il numero degli ultraottantenni è destinato in breve a triplicarsi; a metà del secolo gli ultranovantenni saranno 1,7 milioni), ma anche dei portatori di handicap gravi. Per costoro il modello di sicurezza sociale è “patrigno”, nel senso che non li tutela in modo appropriato.
Attualmente, sono previsti alcuni trasferimenti monetari (ma il riconoscimento della pensione di invalido civile o dell’assegno di accompagnamento arriva dopo un doloroso e interminabile calvario). Poi, vi sono le meritorie iniziative degli enti locali sul piano dei servizi di assistenza, residenziale o domiciliare, che concorrono ad alleviare, in maniera parziale e limitata, i costi, spesso esorbitanti, che gravano sulle famiglie (per le badanti, le rette delle case di riposo, ecc.). Le strutture sanitarie – correttamente – si prendono cura dei non autosufficienti solo quando sono affetti da una malattia acuta. È assennato, allora, prepararsi ad affrontare le nuove emergenze (i dati dicono che si vivrà più a lungo, ma non sempre in buona salute) e le situazioni critiche che si annunciano imminenti (è stimato che occorreranno 160mila nuovi operatori soltanto per l’assistenza ai non autosufficienti).
In Germania, da almeno sette anni, è istituita una forma innovativa di assicurazione sociale (quindi obbligatoria) esplicitamente finalizzata a erogare sussidi e servizi a chi non è più in grado di aver cura di se stesso. Il relativo finanziamento si basa su di un prelievo contributivo pari all’1,7% (suddiviso tra i datori di lavoro e i lavoratori). Per il maggior onere sostenuto sul versante del costo del lavoro, le aziende furono compensate con la soppressione di una festività infrasettimanale. Da noi, nessun tentativo di dare una soluzione organica al problema è riuscito ad andare in porto. Ora il settore rischia di essere abbandonato a se stesso.
È il caso, allora, di prendere in esame una proposta proveniente da alcuni operatori e operatrici e da alcuni esperti del settore che hanno immaginato (si veda l’articolo di Paola Severini Melograni su Il Riformista del 2 marzo scorso) di iscrivere il problema dell’autogoverno delle Onlus nell’ambito del federalismo (tenendo altresì conto dei compiti assegnati in materia alle Regioni). Si tratterebbe di dare vita non più a un’Agenzia nazionale, ma a una rete territoriale di organismi di promozione e vigilanza sui soggetti del Terzo settore. A rendersi protagonista di questa iniziativa sarebbe la Regione Basilicata. Ma perché l’operazione riesca sarà opportuno investire anche il Parlamento.