È presto per dirlo, ma il Muro di Berlino sembra mostrare qualche crepa. Per carità. Anche ieri Angela Merkel, parlando al Bundestag, ha ripetuto i concetti di sempre: “La crisi non si supera in un colpo”. E ancora: “Non ci sono strumenti miracolosi contro la crisi. E gli eurobond non sono sostenibili. La riduzione del debito e il rafforzamento della crescita e dell’occupazione sono i pilastri della strategia dei capi di governo e delle istituzioni europee per sconfiggere la crisi europea del debito”. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire, salvo qualche cortese apertura al ballon d’essai lanciato da Mario Monti: tener fuori dalla contabilità del Fiscal Compact gli investimenti nelle opere di portata strategica, tipo la banda larga.



Ma mercoledì sera al Parlamento tedesco è stata recapitata una relazione della Bundesbank che contiene una novità clamorosa: la banca centrale tedesca si dice disponibile, o quantomeno non contraria, ad accettare un aumento dell’inflazione tedesca come parte di un progetto di ribilanciamento delle economie dell’eurozona nel quadro di un piano di crescita della competitivtà dei paesi più colpiti dalla crisi. Per capire la portata della novità, basta ricordare quanto scritto da Jens Weidmann, il presidente della Bundesbank, in un intervento pubblicato dal Financial Times di lunedì, poche ore dopo la proclamazione della vittoria di François Hollande in Francia: “La politica monetaria dell’eurozona va condotta come un blocco unitario; una politica espansiva per la Germania dovrebbe eventualmente essere condotta con altri strumenti politici”.



“Questo sta a significare una cosa sola – gli aveva ribattuto il chief economist dl quotidiano, Martin Wolf – Toglietevi dalla testa, ci dice Weidmann, l’illusione che la Germania permetterà mai una crescita stimolata dall’espansione monetaria che possa provocare un aumento dell’inflazione dentro i suoi confini. Perciò, i paesi in difficoltà, come Italia o Spagna, continueranno a essere sottoposti alla disinflazione, ma quelli che vantano le condizioni migliori non accetteranno di stimolare le economie a prezzo di inflazione. Ma questa non è un’unione monetaria. Ricorda molto di più la logica di un impero”.



Tre giorni dopo, l’apertura della Bundesbank, se confermata, segna perciò una parziale correzione di rotta, che attende però una conferma. In realtà, nel documento al Parlamento si dice solo che un’inflazione tedesca superiore alla media dell’eurozona potrebbe essere una “naturale conseguenza di un processo di aggiustamento delle economie in crisi”. In parole povere se Italia e Spagna (o altri Paesi) sapranno recuperare efficienza e competitività per conto loro, la Germania non reagirà con una stretta dei tassi frenando l’import e così congelando il virus dell’aumento dei prezzi interni. Non sembra molto, ma, se si pensa al rigore sfoderato fino a tempi recentissimi, ha quasi il sapore di una rivoluzione copernicana. Basti dire che, solo 72 ore fa, il bancheiere centrale tedesco gelava le richieste di una maggior espansione monetaria con queste parole: “Ricordatevi che domani noi saremo quello che è dettato dalla politica monetaria di oggi”. Ovvero, nessuna indulgenza per le cicale.

Oggi, però, i sacerdoti dell’ortodossia hanno chiuso i battenti del portone del tempio. Perché? E con quale sincerità? È facile mettere in relazione l’apertura con lo shock dei risultati elettorali di domenica. Per carità, con la Francia ci si metterà d’accordo prima o poi. Ma il sassolino della crisi greca, ancora una volta, rischia di complicare la strategia di Berlino, che fa del deleveraging del debito della “periferia Europa” il pilastro della sua politica. Certo, Berlino si sta preparando con metodo all’eventuale sganciamento del vagone Grecia dalla Ue, nel caso, più che probabile, che Atene non riesca a esprimere una convincente accettazione dell’austerità. Il fatto che Atene abbia rifiutato l’aiuto dei tecnici tedeschi per rimettere a punto la macchina fiscale e amministrativa non è certo piaciuto dalle parti di Berlino. Ormai i crediti delle banche tedesche verso Atene sono quasi tutti rientrati. Ma un’uscita della Grecia dall’Ue in questo momento rischia di essere un grosso problema, vista la diffidenza dei mercati verso l’euro.

È tutt’altro che da escludere che, in caso di collasso greco, i mercati andrebbero all’attacco non solo di Irlanda e Portogallo, ma anche di Spagna e di Italia. Quali armi potrebbe opporre l’Eurozona? E con quale determinazione? “Negli ultimi anni – scrive The Economist – l’Europa ha affrontato sacrifici a difesa della moneta unica perché le alternative sono state sempre giudicate peggiori. Ma l’impotenza dimostrata nell’affrontare in maniera efficace la crisi ha fatto crescere la tentazione di rovesciare il tavolo. Non è da escludere che una forza politica o l’altra decida che a questo punto tanto vale correre il rischio. E questo è un pensiero terribile”. Probabilmente anche agli occhi della guardia imperiale della Bundesbank, forse meno tetragona e intransigente di quel che non appaia.

Anche alla Bundesbank, forse, si è rimasti colpiti dalla rapidità della discesa delle economie del Continente. I dati della produzione industriale italiana, nonostante il timido rimbalzo di marzo, segnalano un pesante -5,8% nel primo trimestre. La stessa Germania, nonostante i dati positivi di inizio settimana, mostra qualche segno di cedimento che merita di essere monitorato. Soprattutto, qualche cosa sta cambiando nell’asse della politica tedesca: perdono colpi i liberali, si profila una nuova Grosse Koalition. Wolfgang Schaeuble, il ministro delle Finanze che è un europeista convinto, ha dato il via libera agli aumenti salariali a partire dai bancari.

In questa chiave merita un’attenzione particolare la cautela della Bundesbank che da una parte continua a ribadire i temi classici (riforme strutturali, rigore), dall’altra è tutto un insistere sul bisogno di ponderare bene i passi necessari e calcolare le conseguenze di medio e lungo termine di tutto quello che si dovrà decidere nei prossimi mesi. E che potrebbe segnare il destino della Germania e dell’Europa intera. La storia ci insegna però che c’è impero e impero: quelli flessibili, di stampo anglosassone, hanno saputo trasformarsi da potenze mercantili a economie in deficit commerciale, per la gioia dei “satelliti” che hanno saputo prosperare sugli acquisti degli alleati di riferimento; quelli rigidi, che hanno concepito i partners come semplici sbocchi per il loro export.

La Germania, ahimè, finora ha dato mostra di non saper uscire da questa concezione del suo ruolo nel mondo. Ma, come scrisse Aldous Huxley, “il fascino della storia e la sua enigmatica lezione sta nel fatto che, da un’epoca all’altra, nulla cambia eppure tutto è completamente diverso”. Sperare, insomma, non è temerario anche in momenti come questi di cui Stephen King ha detto: “È opinabile che siamo di nuovo nella Grande Depressione, ma depressi siamo di sicuro”.