I mercati, le istituzioni e alcuni Stati lo sanno. Hanno tirato la corda per mesi, ora è a un passo dallo spezzarsi. L’esasperazione della Grecia è al culmine e in Europa si aggira lo spettro della sua uscita dalla divisa unica. Questione di tempo e di volontà politica. In queste ore si cerca l’accordo per un nuovo governo senza il quale ci saranno nuove elezioni. Comunque vada, spetterà al nuovo esecutivo decidere se restare nell’Eurozona. L’abbandono è ormai contemplato nel novero delle opzioni possibili. Gustavo Piga, professore di Economia politica presso la facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata, spiega a ilSussidiario.net cosa accadrebbe. «L’ipotesi è diventata realistica nel momento in cui gli spread dei Paesi dell’Unione europea hanno iniziato a diventare nettamente superiori allo zero. Un differenziale alto rispetto al rendimento dei Bund tedeschi, infatti, ingloba una piccola probabilità di un grande evento chiamato svalutazione. Tale probabilità, per la Grecia, è sempre stata elevata».



Il fatto stesso che gli investitori prediligano i titoli tedeschi, secondo il professore, è indice del fatto che l’eventualità che l’evento si manifesti viene percepita come reale. «Gli altri titoli scontano l’ipotesi della svalutazione della Grecia perché, nella mente dei mercati, tale evento è concretizzabile e determinerebbe il contagio degli altri Paesi». In sostanza, «temono che dopo l’abbandono di Atene, seguano a ruota gli altri; crollerebbero, a quel punto, l’euro e l’Unione, mentre gli spread di tutti i paesi aumenterebbero, salvo quelli della Germania, dove, del resto, il marco si apprezzerebbe».



Tutto si regge su un precario equilibrio: «Si ritiene che sia molto difficile per un Paese cambiare i conti correnti dall’euro alla vecchia valuta. Nel momento stesso, tuttavia, in cui questo dovesse capitare, tutti si renderebbero immediatamente conto del fatto che il passaggio è tecnicamente fattibilissimo. Per la Grecia, come per tutti gli altri Paesi». Nell’immediato, ecco cosa accadrebbe: «Si svilupperebbe un processo simile a quello dell’Argentina. Quando fece default, abbandonò l’unione di fatto con il dollaro. Ci furono due anni di forte recessione dovuti al grande caos di ridistribuzione della ricchezza provocato, a sua volta, dalla ridefinizione dei contratti tra creditori e debitori. Analogamente, anche in Grecia si determinerebbe un periodo di forte tensione sociale, di ridistribuzione arbitraria del reddito, dove gli unici ad arricchirsi sarebbero gli avvocati». Ma, come è successo all’Argentina, attualmente tra i Paesi più competitivi dell’America Latina, non tutto il male verrebbe per nuocere. «La moneta greca, a quel punto, si svaluterebbe moltissimo. Ma, come è noto, una dracma fortemente svalutata restituirebbe enorme competitività a tutta l’industria di export della Grecia. E, come l’Argentina, in pochi anni recupererebbe. D’altronde, ci sono un sacco di economie europee che vivono benissimo senza l’euro».



Da noi, le cose non si metterebbero un granché bene: «Per quanto ci riguarda, la decisione della Grecia farebbe impennare gli spread italiani rispetto ai titoli tedeschi, con un aumento generalizzato dei tassi d’interesse». Ma i rischi maggiori, per il professore, sono altri. «L’euro è un progetto politico come lo sono gli Stati Uniti d’America. Ora: la California, per intenderci, ha una produttività estremamente più alta dell’Alabama. Eppure, ai due Stati non passa per testa di separarsi. Perché, implicitamente, negli ultimi cent’anni, gli Stati più ricchi hanno trasferito ingenti risorse a quelli più poveri. Vi è, infatti, la consapevolezza del fatto che i trasferimenti sono briciole rispetto al valore di una forza che si mostra geo-politicamente compatta e unita». 

La palla torna all’Europa: «le politiche di austerity sinora imposte alla Grecia si sono rivelate fallimentari. Ora, deve invertire la rotta, investire sull’economia reale e sullo sviluppo del Paese per consentirgli di riprendersi; altrimenti, la sua uscita dall’euro e il conseguente tracollo dell’Unione diventeranno scenari sempre più verosimili. E non potremmo, certo, imputarne la colpa alla Germania. In questi mesi, infatti, non c’è stato un solo Paese che si è impuntato, come legittimamente avrebbe potuto fare, per chiedere politiche di crescita in favore della Grecia».  

 

(Paolo Nessi)

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