Lo spread tra i commentatori di politica estera e i mercati aumenta. I primi vedono nei risultati delle elezioni in Nord Renania e Westfalia i presagi di una posizione più flessibile di Berlino in materia di politica monetaria e di bilancio. I secondi pensano che le posizioni stiano irrigidendosi. Anche a ragione del caos in Grecia . Il Premio Nobel Douglas C. North darebbe ragione ai secondi: nel suo libro più noto – “Istituzioni, cambiamento istituzionale ed evoluzione dell’economia” – dimostra come di fronte al cambiamento i punti di vista di politica economia si irrigidiscono.



I mercati sono soprattutto in fibrillazione perché è iniziata (ed è iniziata male) la lunga notte dell’euro. Una notte che durerà un mese. Ieri è iniziata una preoccupata, e preoccupante, riunione dell’Eurogruppo e dell’Ecofin. A fine settimana si terrà il G8: tra gli argomenti principe, cosa avverrà ai mercati mondiali se la Grecia se ne va dall’unione monetaria (o ne è cacciata) e l’eurozona comincia a smontarsi. Sempre entro la fine della settimana in corso c’è il rischio di tracollo di grandi imprese e banche spagnole, di interventi del Governo per scongiurarlo e di disavanzo alle stelle dei conti pubblici di Madrid, che in aggiunta sta per rifinanziare 200 miliardi di euro di debito.



A seguire il 31 maggio, gli irlandesi dovranno decidere, per referendum, se ratificare o meno il Fiscal Compact, il 10 e il 17 giugno si terranno i due turni delle elezioni legislative francesi (e i sondaggi danno in avanzata i partiti anti-sistema e anti-euro). Infine, il 28-29 giugno, il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue dovrà fare il punto sullo stato (di salute) dell’Unione.

Un’ipotesi potrebbe essere che, ancora unavolta, di fronte alle prospettive di una crisi, l’Europa abbia un sussulto e faccia un balzo in avanti verso l’unione politica (elezione del Presidente della Commissione, nuovi poteri al Parlamento europeo e, in questo quadro, eurobond per “socializzare” parte dell’Himalaya del debito pubblico). La auspica il Movimento europeo. L’ha presentata una specialista come Vera Zamagni a un recente dibattito al Bologna Center della Johns Hopkins University. È una possibilità. Ma a questo scenario non darei più del 10% di probabilità.



Le precedenti “crisi” europee (ad esempio, la “sedia vuota” – non partecipazione – della Francia ai Consigli dei ministri degli anni Sessanta) si sono svolte in una Comunità europea omogenea e in un contesto di crescita, mentre quella successiva alla mancata ratifica della Convenzione costituzionale europea (avvenuta in un quadro di stagnazione e in un’Europa già vasta) ha dato una botta alle istituzioni europee da cui devono ancora risollevarsi. Meglio prepararsi all’uscita dall’euro della Grecia e di qualche altro, indossare elmetti e non farsi trovare impreparati quando i mattoni cominceranno a cadere, con il pericolo di finirci in testa.

Questi giorni vengono tratteggiati gli scenari più diversi. Ad esempio, domenica, il quotidiano La Repubblica affermava, in una pagina, che secondo la Bce il ritorno della Grecia alla dracma sarebbe poco danno per tutti e, nella pagina a fronte, minacciava che la secessione greca dall’eurozona costerebbe 11.000 euro a ciascun europeo. Dal 1910 a oggi, si sono sciolte 69 unioni monetarie e ne sono nate due – quella tra Belgio e Lussemburgo (come dire tra la Provincia di Roma e la Provincia di Frosinone) e la malconcia unione monetaria europea.

Quando dal 1967 al 1982 ero negli Usa (prima per studiare e poi per lavorare in Banca mondiale) ho assistito alla fine di una trentina di unioni monetarie. In breve, quando l’uscita o lo scioglimento sono programmati, i costi per la collettività sono contenuti e i benefici di medio e lungo periodo elevati. Quando la dissoluzione è caotica (il caso della fine dell’unione monetaria dell’Africa occidentale) ci vuole qualche anno per sanare le ferite – nel caso specifico l’unione aveva molte istituzioni comuni e ci volle del tempo per capire chi doveva rimborsare cosa dei prestiti contratti, pure con la Banca mondiale.

Quindi, evitiamo il terrorismo psicologico e prepariamoci a un’unione monetaria molto differente da quella del Trattato di Maastricht. Non mancano proposte concrete. È più utile studiarle che rotolarsi per terra o rivolgersi a esperti di “magia nera”. Interessante quella pubblicata a Lisbona un mese fa. È differente da quelle lanciate da alcuni economisti greci, spesso scritti da accademici anziani e imbevute di cultura nazionalista. Il programma portoghese è invece redatto da un giovane professore di economia all’Università di Porto e fellow del maggior istituto di ricerca della Repubblica lusitana, Pedro Cosme Vieria, il quale pubblica sulle principali riviste di econometria della Gran Bretagna e degli Stati Uniti ed è un blogger accanito.

Il programma parte dalla considerazione che a vent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht, l’eurozona è “sull’orlo di un precipizio” a ragione principalmente dei differenziali d’inflazione che hanno causato massicci disavanzi dei conti con l’estero, forti aumenti del credito totale interno nei paesi in deficit e quindi montagne di debito pubblico. Il lavoro contiene stime dettagliate per ciascun Paese di quanto dovrebbe svalutare (rispetto all’euro) per competere (ad esempio, la Grecia del 20%, la Spagna del 15%, il Portogallo del 10%, l’Italia dell’8%). Non potendo utilizzare il cambio, si stanno comprimendo i salari reali netti in busta paga.

Pedro Cosme Vieria accusa di “catastrofismo terroristico” coloro secondo cui la fine dell’eurozona provocherebbe il caos: negli ultimi cent’anni sono morte 69 unioni monetarie e nessuno ha sofferto troppo a lungo. Pedro Cosme Vieria propone un percorso semplice per i paesi a cui la “camicia di forza dell’eurozona” sta stretta: annunciare una strada per tornare alle monete precedenti all’euro con un “cambio mobile” (in gergo crawling peg) agganciato all’euro di chi resta nell’eurozona e introdurre uno spread per i contratti in valuta locale indicizzato all’euribor (usato già per i tassi dei mutui aggiornati periodicamente).

I conti bancari continuerebbero a essere denominati in euro, ma prezzi e salari nella moneta locale. Ciò servirebbe a contenere prezzi e salari (non solo i secondi come avviene adesso) in termini di euro, ad aumentare le esportazioni e frenare le importazioni, senza incidere sulla libertà di movimento di fattori di produzioni, di merci e di servizi. Dopo una fase di transizione ciascun Paese potrebbe valutare se rientrare negli accordi europei sui cambi oggi in vigore, di solito chiamati Sme II in quanto prevedono fasce di oscillazione (attorno all’euro) differenziate per ciascun Paese.

Sorprende l’assordante silenzio del ministero dell’Economia e delle Finanze e della Banca d’Italia, poiché non siamo in una soluzione sostanzialmente migliore di quella dei portoghesi. E, se la Grecia torna alla dracma, la campana potrebbe suonare anche per noi. Puntiamo – è vero – su un salto in avanti e su un’Ue che ci tolga le castagne dal fuoco. Nella lunga notte dell’euro, non avere un “piano B” è un segno non solo di poca conoscenza dei fenomeni economici, ma anche di poca responsabilità rispetto alla collettività.

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