Il Dipartimento della Giustizia americano ha ordinato l’avvio di un’inchiesta sulle perdite della società finanziaria JPMorgan, sulla quale sta già indagando anche la Securities and Exchange Commission (Sec). Sulla vicenda nei giorni scorsi è intervenuto il presidente Obama, che ha affermato che “le scommesse rischiose che hanno portato JPMorgan a una perdita da 2 miliardi di dollari dimostrano come la riforma di Wall Street sia necessaria”. Martedì intanto si è tenuta l’assemblea annuale di JPMorgan, che ha confermato Jamie Dimon nel doppio incarico di presidente e amministratore delegato. Il sindacato Afscme ha presentato una proposta per chiedere di separare le due cariche, affermando che senza una divisione dei ruoli è come dire che il controllore e il controllato vengono a coincidere. Ma la mozione ha ottenuto soltanto il 41% dei voti ed è stata respinta. Ilsussidiario.net ha intervistato Victoria Ivashina, professoressa di Finanza all’Harvard Business School, per chiederle di commentare la necessità di una riforma di Wall Street sottolineata lunedì dalla Casa Bianca.
Professoressa Ivashina, è davvero necessaria una riforma di Wall Street? E quale tra le tante possibili riforme sarebbe la migliore?
Se l’alternativa è tra sì e no, la risposta è senz’altro sì. Il vero problema è quale tipo di riforma ed è su questo che vi è disaccordo, perché credo che nessuno, banche comprese, possa considerare questa riforma di per sé non necessaria. Il punto è che, per ragioni politiche, si tende a semplificare le cose, ma, purtroppo, non credo che esista un modo semplice per separare le attività bancarie, per esempio, con la cosiddetta “Volcker rule”, con la quale la banca potrebbe fare solo una certa quantità di un certo tipo di operazioni. Non credo che con questo tipo di regolamentazione possano essere veramente affrontati problemi come quello evidenziato, per esempio, dal caso di JP Morgan. Il tutto rischia di ridursi a una questione di definizioni. Allo stato attuale delle cose, il caso citato avrebbe potuto anche essere escluso dalla “Volcker rule”, in quanto considerato un’operazione di hedging (posizione aperta per coprire i rischi di un’altra operazione di investimento, NdR).
Ritiene che si debba proibire alle banche l’utilizzo di qualsiasi forma di derivati?
No, ritengo che sarebbe irragionevole, perché i derivati rappresentano degli strumenti necessari di gestione del rischio. Il problema è perciò come assicurare che la banca compia effettivamente operazioni di copertura del rischio e non di pura scommessa o addirittura di gioco d’azzardo. E non è risolvibile con le definizioni. Credo che l’unica strada sia di consentire alle banche di operare con i derivati, ma di imporre stretti requisiti di capitale.
La riforma di Wall Street è stata uno dei più significativi successi di Obama, ma non è stata ancora resa operativa. Per quale motivo?
Si tratta di una riforma molto complessa, con un generale consenso sul fatto che qualcosa si debba fare, ma con altrettanto disaccordo su cosa fare esattamente. Il settore finanziario è molto importante negli Stati Uniti, non solo per il loro potere di lobbying, ma per l’importanza che riveste per l’intera economia. Anche i politici ne sono coscienti e penso che non lo vogliano regolamentare in modo eccessivo. Vi è poi un aspetto di competitività del settore, anche nel contesto dell’economia globale, che rende difficile passare dalla grande visione di una riforma alla sua applicazione concreta. Vi sono moltissimi incontri tra regolatori e operatori del settore per cercare di capire quali regole possono funzionare e quali possono essere le conseguenze.
La riforma di Wall Street è davvero solo una questione interna degli Usa?
E’ opportuno che tutto ciò non venga fatto dagli Stati Uniti da soli, ma coordinandosi con le autorità europee per decidere insieme la regolamentazione. É quindi un processo molto difficile, impossibile da fare troppo rigidamente. Per questo il Dodd-Frank Act (la legge di riforma di Wall Street firmata da Obama nel 2010, NdR) stabilisce un quadro di riferimento, ma non dice esattamente come dovrebbe essere concretizzato, e non dovrebbe dirlo. È un processo che deve essere affrontato insieme da regolatori e operatori e che potrebbe prendere forma l’estate prossima, almeno questa è la speranza.
Un singolo trader ha messo a rischio una grande istituzione finanziaria. Come mai ciò è sfuggito alle verifiche interne?
A mio parere, occorre ricordare che si ha a che fare con banche con bilanci da trilioni di dollari e con centinaia di migliaia di dipendenti. Come è stato possibile? Non è chiaro, poiché non vi è molta informazione su ciò che è stato fatto esattamente. Una possibilità è che quelle operazioni fossero intenzionali e considerate di hedging, e questo spiegherebbe perché sono state fatte. Un’altra possibilità è una mancanza di controllo, possibile in una vasta organizzazione, anche perché il rendiconto può essere fatto solo per differenze nette e quindi certi rischi possono essere non immediatamente evidenti.
E il governo non ha strumenti di controllo?
La stessa logica si applica ai regolatori. Si immagini di dover controllare una istituzione impegnata in queste complesse attività finanziarie, non perché le si vuole complicare, ma perché questa complessità è tipica del mondo finanziario delle grandi banche internazionali. Si tratta di capire dove andare a guardare e quando, in una istituzione che maneggia trilioni di dollari. Il punto importante è stabilire se l’errore commesso in JP Morgan riflette un problema più grande, ma al momento la società sostiene che questo non è il caso. Non c’è da essere sorpresi: può essere che questo sia un caso limite, viste le dimensioni, ma il mestiere delle banche è quello di assumere rischi, è nella natura stessa della loro attività. Perciò è naturale che rischino delle perdite e ciò succede di continuo. Ma, come ha sottolineato Dimon, il capo della JP Morgan, si tratta di una società che globalmente fa profitti, che questa volta è incorsa in una perdita, più grande di quanto previsto, ma la posizione della JP Morgan è che tutto ciò non è la conseguenza di un cattivo funzionamento della società, ma solo dell’errore compiuto in una delle operazioni della JP Morgan. E penso che questa sia probabilmente la realtà.
(Pietro Vernizzi)