Due eventi, pressoché simultanei, dagli effetti dirompenti. In Spagna, il crollo in Borsa di Bankia, il colosso nato dalla fusione di sette banche che inglobavano titoli tossici provenienti dalla bolla immobiliare e che è stato in parte nazionalizzato la scorsa settimana, e le voci (smentite dai canali ufficiali) di prelievi dei suoi clienti per oltre un miliardo di euro. In Grecia, nel timore di un’imminente uscita dall’euro, i cittadini hanno preso d’assalto i bancomat, prelevando intorno agli 800 milioni di euro. Cosa sta succedendo? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Becchetti, professore straordinario di Economia Politica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata. «Si stanno verificando, contemporaneamente – spiega -, tre fattori il cui fine, in certi casi esplicitamente ricercato, potrebbe essere la fine della divisa unica». Gli spread, in primo luogo. «Gli speculatori – grandi fondi di investimento, multinazionali, anzitutto –  hanno realizzato un sistema che consente alle fessure esistenti tra le economie reali, una volta  tradotte in finanza, di amplificarsi a dismisura». Per intenderci: «Il fatto che tra Francia e Germania il differenziale tra i rendimenti dei titoli decennali sia così elevato non ha alcun senso. Si tratta di due Paesi che hanno, più o meno, gli stessi indici economici e un debito analogo. Lo stesso discorso vale per Italia e Francia». Secondo il professore, si tratta di un meccanismo in grado di sovrastimare le differenze. «Ragionando in voti, l’8 della Germania, secondo la cultura dello spread, diventerebbe un 10, il 7 della Francia, un 5». Di fatto, esasperare le divisioni finanziarie sortisce effetti pratici sull’economia reale. «Lo spread, infatti, determina i costi con i quali gli Stati si devono rifinanziare. D’altro canto, produce le crisi bancarie, svalutando i titoli detenuti dagli istituti di credito».



Ecco il secondo fattore: «Al primo si è aggiunta la miopia dei “sacerdoti del rigore”. Che non hanno compreso come i mercati non premino i tagli, ma lo sviluppo». Infine, i tedeschi: «Il primo e il secondo fattore  vengono amplificati dalla posizione di forza della Germania. Dove, come ricordava l’economista Paul De Grauwe, non è un caso che la parola “debito” coincida con la parola “colpa”. Eppure, quando furono i tedeschi a trovarsi in difficoltà di bilancio, non ebbero problemi a modificare il Patto di stabilità». Tali dinamiche creano nei cittadini, più o meno consapevoli di quanto sta accadendo, sconforto. «In ragione di questi tre fattori, si è innescato il panico». Ci potrebbero essere serie conseguenze. Vediamo in Spagna: «Se la banca dovesse fallire, sarebbe totalmente nazionalizzata dallo Stato che, a quel punto, aumenterebbe il suo debito. Fino a quando gli sarà consentito farlo?». In Grecia, invece, «se la corsa agli sportelli continuerà, non è escluso che il Paese esca dall’euro». In entrambi i casi, la soluzione passa per l’Europa e la Bce. «Bisogna vedere quanta disponibilità la Banca europea sarà disponibile a immettere nei mercati spagnoli. Per quanto riguarda la Grecia, la decisione andrà presa di concerto con le altre autorità europee». Al che, le cose potrebbero complicarsi.



«Manca, tra gli Stati dell’Unione, la condivisione di un reale capitale sociale. Non c’è stima, né fiducia. Quando la Germania dell’Ovest dovette aiutare quella dell’Est, fu disposta a svenarsi. Per la Grecia, sarebbero necessarie molte meno risorse. Ma preferisce abbandonarla a se stessa». Le ripercussioni sarebbero enormi. «Con una dracma molto svalutata, non è escluso che la sua economia riparta. Alcuni paesi potrebbero seguire il suo esempio mentre altri, già adesso, se un tempo ambivano a entrare nell’euro, oggi se ne guardano bene. Come la Polonia, la cui economia sta andando particolarmente bene». Le colpe, in tal senso, sono generalizzate. «Il problema è che l’euro avrebbe dovuto rappresentare un passaggio intermedio. Ma ci siamo fermati al guado senza perseguire fino in fondo l’obiettivo dell’unione federale, ove prevedere una serie di trasferimenti sulla scorta degli Stati americani».



 

(Paolo Nessi)

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