Dopo che anche dal G8 abbiamo ricevuto l’ennesimo monito affinché l’Europa persegua la strada della crescita, senza peraltro indicare alcuna ricetta per poterlo fare in concreto, passiamo all’angolo dell’umorismo. Il 70% delle banche spagnole è sano e in grado di far fronte a un peggioramento della recessione, mentre il 30% può aver bisogno di aiuti di Stato e potrebbe essere nazionalizzato: lo scriveva ieri El Mundo, anticipando un rapporto del Fmi atteso entro metà giugno. Lo stress test in questione prevedeva una contrazione del Pil del 4% e il Fondo indica che l’istituto più in difficoltà è Bankia, che pesa per la metà su quella quota del 30% del sistema bancario spagnolo che necessita aiuti pubblici. E, infatti, a Bankia servono altri 7-7,5 miliardi per rispettare il nuovo target sugli accantonamenti, come confermato ieri dal ministro dell’Economia spagnolo, Luis De Guindos, a Bloomberg, aggiungendo che domani riferirà in Parlamento sul caso e sui criteri con cui sono state selezionate le due società di revisione indipendenti che effettueranno un test di resistenza sulle banche per recuperare il clima di fiducia sugli istituti spagnoli.
Tutte belle parole e straordinarie dichiarazioni d’intenti, peccato che al netto dei circa 40 miliardi di nuovi accantonamenti chiesti dal governo iberico alle sue banche per prepararsi al tonfo finale del mercato immobiliare, la previsione percentuale del Fmi vada invertita: il 30% è più o meno sano, il 70% sopravvive grazie ai prestiti della Bce. I quali stanno cominciando a diventare un po’ troppi, a fronte poi di collaterale sempre più limitato e scadente: quindi o si chiede di meno all’Eurotower scaricando sui contribuenti i costi diretti di nuovi salvataggi bancari o si emette più carta con garanzia governativa, scaricando sempre sui cittadini spagnoli i costi indiretti in termini di aggravio del debito pubblico.
Da qualsiasi lato la si voglia guardare, la situazione spagnola è in un vicolo cieco: le banche le si può puntellare solo se la Bce riattiva il programma di acquisto di debito sovrano sul mercato secondario, levando i Bonos dal piatto della speculazione internazionale. Altrimenti, è il più classico dei cul-de-sac. Mario Monti starebbe alacremente lavorando sul fronte diplomatico per isolare la Merkel e ottenere questo risultato, cui Mario Draghi non sarebbe contrario di principio – anche perché gli eviterebbe una terza, disastrosa asta Ltro – ma impossibilitato dalla resistenza interna al board della Bundesbank.
L’appoggio informale ma abbastanza chiaro di Barack Obama a quella che pare la nuova linea neo-espansiva e filo-crescita di Italia e Francia, potrebbe fiaccare la resistenza di Berlino, anche se dalla pancia del gigante teutonico arrivano segnali e scricchiolii sinistri. Per oltre due terzi dei tedeschi (67%), infatti, la Grecia dovrebbe abbandonare l’euro, mentre meno di un terzo (23%) è favorevole alla sua permanenza nella moneta unica. Lo ha rivelato un sondaggio Infratest-Dimap eseguito per conto della prima rete televisiva Ard e reso noto domenica sera nel corso del talk-show “Guenther Jauch”, che sulla sorte dell’euro aveva come ospiti l’ex ministro socialdemocratico delle Finanze, Peer Steinbrueck, e il suo contestato compagno di partito, Thilo Sarrazin. Il quale oggi manderà in libreria il suo nuovo libro dal titolo “L’Europa non ha bisogno dell’euro”, già in cima alle prenotazioni di Amazon: dal sondaggio emerge inoltre che per il 49% dei tedeschi l’introduzione dell’euro è stato un errore, mentre di avviso contrario si dice il 47%.
E che in Germania cominci a tirare aria pesante lo conferma anche il dato reso noto da Reuters nel weekend, in base al quale il calo di prenotazioni per vacanze in Grecia da parte di cittadini tedeschi (la nazionalità in cima alla presenza negli ultimi anni) è già del 30% rispetto allo scorso anno, una mazzata spaventosa per i calcoli di entrate fiscali del governo da parte dell’unico settore che non aveva subito i contraccolpi della crisi, ovvero proprio il turismo. E i sentimenti che dominano questa scelta non sono quelli di maggiore economicità di altre mete, bensì due e molto chiari: il sentimento anti-tedesco che cresce ogni giorno in Grecia e la volontà di non aiutare con soldi tedeschi un Paese che, a Berlino come a Stoccarda, si ritiene sempre più una cicala che non merita ulteriore pazienza.
Ma, paradossalmente, la peggiore notizia dal fronte europeo, ieri è arrivata dalla Francia, di cui già due settimane fa avevo tratteggiato un ritratto a tinte fosche, soprattutto per quanto riguarda il mercato immobiliare. Et voilà, detto fatto. Domandina di inizio settimana: chi emette il bond il cui andamento da bancarotta è rappresentato nel grafico qui sotto? Una banca greca o spagnola?
No, cari lettori, il bond in questione è emesso da Caisse Central Immobilier de France (3CIF), entità che con la sorella CIF Euromortgage (CIFE), è una sussidiaria al 100% del Credit Immobilier de France Development (CIFD), soggetto che Fitch definisce come «uno specialista dei mutui immobiliari, con business interamente ed esclusivamente indirizzato verso il mercato francese».
Insomma, CIFD, controllato dal Provicis Group, è il secondo più grande gruppo francese di full services per il real estate e forse il miglior barometro per capire lo stato di salute del settore. Per moltissimo tempo, il gruppo è rimasto fuori dai radar dei mercati, ma qualcosa è cambiato l’8 maggio scorso, quando la trattazione delle securities emesse da 3CIF e CIFE è stata sospesa su richiesta delle autorità di vigilanza francesi e del Lussemburgo. Una decisione che ovviamente ha fatto crollare il valore dei bonds e ha portato con sé il timore che non ci fosse più collaterale o cash flow per coprire le liabilities del gruppo.
Si è invece scoperto che il problema era dovuto alla mancata comunicazione sui conti correnti entro la deadline del 30 aprile, fatto che immediatamente ha dato vita a speculazioni sul fatto che il gruppo stia per subire un downgrade multi-notch, qualcosa che non solo colpirebbe al cuore questo gigante, ma anche il mercato francese dei cover bonds. Addirittura, il sito francese Mediapart, accomuna quanto sta accadendo con Northern Rock e con quella che definisce «una piccola Lehman Brothers francese», visto che in febbraio Moody’s aveva minacciato un downgrade di 4 livelli per 3CIF: martedì scorso, la conferma che qualcosa stava accadendo, quando i bonds senior della banca, che era rimasta in contrattazione, sono finiti sotto terribile pressione, così come quelli di CIF Euromortgage.
Il giorno dopo, nemmeno a farlo apposto, Moody’s è tornata sull’argomento con un update alla sua valutazione di febbraio, facendo di fatto intendere che l’unica speranza per salvare la compagnia è la sua nazionalizzazione. Moody’s ha infatti minacciato di portare la valutazione di 3CIF a E/Caa1 da C/A3, ovvero la possibilità di un abbassamento sotto l’investment grade se il governo francese non si farà garante di un intervento diretto in supporto o dell’intervento di una terza parte nei confronti di 3CIF, il cui modello di business «è attualmente non valido».
Non c’è bisogno di dire che un taglio a Caa1 scatenerebbe una call sul collaterale in perfetto stile Aig: cosa farà Hollande, il quale ha detto in campagna elettorale che non avrebbe salvato le banche con i soldi dei francesi? «3CIF non ha alternativa se non la nazionalizzazione, visto che nessuna banca francese ha la minima intenzione di acquisirla», ha dichiarato coperto dall’anonimato un alto dirigente bancario francese a “Insolvency International”. E visto che 3CIF impacchetta covered bonds dal suo portafoglio prestiti come collaterale per ottenere liquidità dalla Bce in operazioni repo, il crollo del valore di quelle obbligazioni potrebbe – in assenza di un impegno chiaro del governo francese – portare l’Eurotower a chiudere i rubinetti e 3CIF ad andare a zampe all’aria. A quel punto, sarebbe bank run. Sembra la Grecia, ma è la Francia.
P.S.: Avete visto che successone le azioni di Facebook dopo il collocamento di venerdì? Cosa vi avevo detto l’11 febbraio del 2011? Meditate gente.