Al termine degli ultimi “vertici” europei e internazionali (al pari di quello in programma questa sera), i titoli dei principali quotidiani e i commenti dei maggiori editorialisti hanno posto l’accento sull’azione comune dei maggiori Stati del vecchio continente – e pure degli Usa – sulla cancelliera tedesca, Angela Merkel, perché assumesse posizioni “più flessibili” – ossia minore insistenza sul rigore in materia di finanza pubblica, trasferimenti agli Stati (e alle banche) in difficoltà e “socializzazione” almeno parziale del debito pubblico dell’eurozona.



Le sconfitte elettorali della Cdu in alcuni importanti Länder sono state lette in questo senso: pure dall’interno – si è scritto – si vorrebbe un Governo “più morbido”. Poco conta che questa non è la posizione del Parlamento tedesco, né, tanto meno, della Corte Costituzionale della Repubblica Federale. Contano ancora meno le lezioni della storia economica secondo cui, di fronte a difficoltà, le posizioni si irrigidiscono. Poco conta, soprattutto, che in molti paesi europei si dovrebbe considerare finita l’illusione sul fatto che l’euro avrebbe tolto le castagne dal fuoco a questo o a quello e avrebbe costretto la classe dirigente (e l’opinione pubblica) a riflettere sui veri problemi e su come risolverli.



Questo è il caso dell’Italia. L’accesso al gruppo di testa della moneta unica è stato presentato come un toccasana. Tanto più perché avveniva proprio mentre sembrava iniziare quella che veniva presentata come la seconda Repubblica. Ora, tale seconda Repubblica si sta spappolando prima ancora di essere uscita dall’adolescenza. Il “Rapporto annuale 2012” presentato ieri dall’Istat contiene i dati per fare un consuntivo degli ultimi vent’anni – i primi di trepida attesa se essere o meno accolti nel cotanto club della moneta unica e gli altri a produrre, competere e vivere nell’eurozona.  Le cifre dicono a tutto tondo che il male oscuro dell’economia italiana è la bassa, anzi bassissima produttività: ristagnante o quasi tra il 1992 e il 2002 e negli ultimi dieci anni fanalino di coda dell’Unione europea (Ue) a 27.



Rispetto alla media Ue abbiamo registrato un differenziale di crescita reale annuo della produttività pari a -1,2 punti percentuali. Se si continua di questo passo si rischia di arrivare a tassi di produttività da Paese in via di sviluppo con fin troppo chiare implicazioni in materia di redditi, risparmi, investimenti e potenziale di crescita.

L’andamento negativo della produttività morde sulla competitività. Mentre si intravedevano i barlumi di quella che sarebbe dovuta essere la seconda Repubblica, l’export italiano superava il 5% di quello mondiale; alla nascita dell’euro si era giunti al 3,8%; gli ultimi dati mostrano che, nonostante l’exploit di questa o di quella fascia del made in Italy , facciamo fatica a tenere il 3%. La nostra quota di mercato è sempre più insignificante nel contesto mondiale perché la nostra specializzazione produttiva è rimasta in gran parte ancorata a settori tradizionali (con qualche produzione di nicchia), condizionati a loro volta dalla modesta dimensione d’impresa (in media in Italia un’impresa ha 4 addetti e soltanto il 18% delle imprese ne hanno più di 250).

Inoltre, da decenni si trascurano la crescita del capitale umano e le attività di ricerca e sviluppo; la caduta degli investimenti pubblici incide negativamente sul capitale fisso sociale (è stato stimato, ad esempio, che le carenze infrastrutturali comportano un costo alle imprese e ai consumatori di 40 miliardi di euro l’anno). Il tutto si innesca su una finanza pubblica fragile dove ci sono ancora ampi margini di spesa improduttiva.

In sintesi, nella presunta seconda Repubblica, l’economia italiana è cresciuta a un tasso appena dello 0,9% l’anno – più sostenuto tra il 1992 e il 2000 (1,8% l’anno) e più contenuto (0,4% l’anno) sino all’inizio di una recessione che minaccia di diventare depressione. In ultima posizione comunque tra i 27 dell’Ue e con un forte distacco rispetto alla media dell’eurozona.

Nessuno può attribuire ad Angela Merkel il nostro “male oscuro”. Dovremmo invece ringraziarla perché ce lo fa toccare con mano. Ricordate cosa dice Cassio a Bruto nel primo atto del “Giulio Cesare” di Shakespeare? “Il problema non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi”. L’Istat non utilizza i settenari del Bardo. Ma i suoi numeri sono ancora più eloquenti.

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