Super Mario, pensaci tu. Ma il presidente della Bce sta bene attento a non urtare gli animal spirits che si confrontano sulle due rive del Reno: “Superata l’emergenza – dice intervenendo a Roma al convegno in memoria di Federico Caffé, il maestro che lo spinse a proseguire gli studi al Mit – occorre che il consolidamento fiscale sul quale i governi dell’euro hanno compiuto straordinari progressi, si riqualifichi con una diminuzione della spesa corrente e del prelievo fiscale”. Accanto al fiscal compact, insomma, va affiancato “un patto per la crescita” come vuole François Hollande in sintonia con Mario Draghi. Inoltre, aggiunge il presidente della Bce, è vitale “per la crescita e l’occupazione” che le banche “tornino a porsi in condizione di rifinanziare l’economia”.
Ma nemmeno Angela Merkel non ha motivo di lagnarsi delle parole del banchiere. “Il caso tedesco – dice Draghi – dimostra assai bene che estesi ed efficaci sistemi di welfare possono essere resi più efficienti senza compromettere le finalità sociali”. Altro che contestare la lezione di austerità teutonica: la via maestra del welfare inteso come “strumento per promuovere in sé inclusione e solidarietà” passa da Berlino.
Alla fine, chi si attendeva indicazioni più dirette dal banchiere centrale è andato deluso. Com’era inevitabile che fosse, per più ragioni. Innanzitutto, Draghi si guarda bene dall’invadere il terreno della politica, soprattutto in un momento in cui all’asse Merkozy subentra la ricerca di un equilibrio instabile, destinato a protrarsi fino alla Grosse Koalition che si profila in Germania nel 2013. Ma forse, l’interesse più immediato di Draghi è per il prossimo futuro.
I prossimi giorni saranno senz’altro decisivi per le sorti dell’euro. Pesa, com’è ovvio, la spada di Damocle dell’uscita della Grecia dall’euro. Ma, più ancora, i possibili effetti del battito di ali di farfalla da Atene che potrebbe far crollare i Propilei dell’euro. La questione va ormai ben al di là degli umorti di Atene, del resto ballerini e tutt’altro che proni ai sacrifici per l’Europa. Se le sorti della moneta unica dipendessero dal voto di pancia degli elettori del Pireo o di Salonicco, sarebbe giustificato un grande nervosismo alla vigila del voto. Invece, la finanza Ue ha cominciato a tremare mercoledì 23 maggio, poche ore prima del vertice serale dei capi di Stato europei riuniti a Bruxelles per decidere quali misure adottare per evitare il ritorno alla dracma e rilanciare lo sviluppo della Ue. Ovvero, i mercati danno già per scontato che l’Unione europea non riuscirà nei prossimi venti giorni a fare quel che non è riuscita a fare nei quaranta mesi che abbiamo alle spalle.
Nel frattempo, dopo la corsa agli sportelli bancari in Grecia, è iniziato il bank run in Spagna. Intanto, agenzie di rating e uffici studi rilanciano i numeri dell’esodo di capitali dai titoli del debito sovrano e dalle Borse del Sud Europa, inclusi i bond societari e i correnti correnti. Un fiume di denaro che ha messo in ginocchio il sistema spagnolo. L’Italia, grazie al forte risparmio privato, tiene meglio. Ma fino a quando?
Il quadro finanziario è ben chiaro agli occhi di Draghi., Il bollettino di guerra di ieri segnala: 1) il Pmi composito, che misura le aspettative dei direttori acquisti delle imprese europee, è sceso ai minimi da tre anni calando a maggio a quota 45,9 punti dai 46,7 di aprile. La recessione morde e morderà ancor di più; 2) crescono i prestiti chiesti dalle banche alla Bce ai livelli massimi da due mesi: 3,9 miliardi confermando il trend al rialzo dopo i 2,5 miliardi di martedì e 1,2 miliardi di lunedì. In lieve aumento, secondo quanto riporta Bloomberg, pure i depositi overnight con 766 miliardi parcheggiati nelle casse di Francoforte contro i 764 del giorno prima. Insomma, da una parte il mercato interbancario è fermo, dall’altro chi ha liquidità (vedi le grandi Sa tedesche) non si fida e parcheggia i denari all’1%; 3) l’euro è ai minimi da 22 mesi sul dollaro, la sterlina e lo yen. Non solo. Ormai le banche Usa hanno stretto i rubinetti: per rifornirsi di moneta Usa, in questi giorni, gli istutiti europei non possono che bussare alla porta della Bce; 4) non è certo virtuosa la corsa ai Bund tedeschi a due anni, collocati allo 0,07% presso una clientela alla ricerca spasmodica di sicurezza. Una corsa, per giunta, drogata dagli acquisti in arrivo dalla vicina Svizzera che continua a comprare euro (o Bund, il che è lo stesso) a palate pur di impedire una rivalutazione del franco che potrebbe mettere a rischio l’industria, il turismo e i servizi della Confederazione. 5) pesa pure la caduta delle Borse a livelli infimi: per dirla con Giovanni Perissinotto, le Generali ormai sono prezzate in Borsa la stessa cifra di quando raccoglievano un quinto dei premi di oggi. Insomma, segnali di crisi della finanza dell’eurozona si sono ormai tradotti in uno stress generale, fatto di mille episodi da cui emerge un sistema fuori controllo, che ormai crede solo nella famosa legge di Murphy per cui “se una cosa può andar male, sicuramente lo farà”.
In questo quadro Draghi difende le misure straordinarie, cioè i prestiti Ltro che “ci hanno fatto guadagnare tempo, preservando la funzionalità della politica monetaria, impedendo un collasso dei mercati bancari” che avrebbe avuto effetti su produttività e lavoro “di gran lunga più pesanti” di quelli che ci sono stati. Ma è ben consapevole che occorre oggi un salto in avanti, in tempi brevissimi. L’ora X potrebbe scattare addirittura nel prossimo weekend, sfruttando la circostanza che lunedì prossimo le Borse Usa resteranno chiuse per festività. Può esser quindi l’occasione giusta per varare misure a sostegno del sistema bancario europeo, in grado di allontanare il rischio della corsa agli sportelli nell’Ue, a partire dalla Spagna.
L’esperienza ci insegna che la Germania, assai rigida nel tutelare il dogma politico dell’austerità, è assai più flessibile quando si tratta di allentare le briglie alla banca centrale in occasione delle emergenze. Il risultato? Probabile qualche manovra straordinaria di QE all’europea e un tacito assenso alla ritirata dell’euro nei confronti del dollaro, una circostanza che non piace agli Usa che già fanno intravvedere una nuova misura d’espansione monetaria per l’estate. Ma nemmeno al Regno Unito: la svalutazione dell’euro rischia di essere un tiro mancino all’Inghilterra che, zitta zitta, sta per trasformarsi in uno degli opifici più convenienti d’Europa al punto che Ellesmere, nel Regno Unito, ha strappato la produzione dell’Opel Astra agli stabilimenti tedeschi. Uno sfregio che in anno elettorale pesa alla Merkel più della vittoria del Chelsea a Monaco di Baviera.
Questo promette di essere il futuro prossimo, a meno che il collasso della Grecia non costringa i governi a dotare l’Ue e la Bce di poteri straordinari. Ovvero, portare sotto l’ombrello della garanzia europea tutti i depositi bancari, cosa possibile solo se i governi affideranno la vigilanza sul credito a un’istituzione monetaria in stretto contatto con la Banca centrale. Un sacrificio che nessun politico, al di là delle chiacchiere, si sente di compiere. Ma che è senz’altro necessario, se si vuol fare un effettivo passo in avanti sulla strada delle riforme e cancellare quel sottoutilizzo dei giovani che, “oltre a ferire l’equità, costituisce uno spreco che non possiamo permetterci”.