Mario Draghi, verrebbe da dire, ha scelto la cornice adatta per mettere a disagio i falchi della Bundesbank sul fatto che qualcosa non funziona nella terapia teutonica della crisi, tutta austerità e niente sviluppo. Oggi, infatti, come capita due volte l’anno, la Banca centrale lascia la confortevole sede dell’Eurotower di Francoforte per una tappa itinerante. Ma stavolta i membri del direttorio non verranno accolti dalla solenne e austera cornice della Berlino post-moderna, come accadde pochi mesi fa, bensì se la vedranno con Barcellona, turbolenta e arrabbiata capitale del dissenso della vecchia Europa. Tanto che, in vista del meeting dei banchieri, la Spagna ha sospeso l’accordo di Schengen e inviato 6.500 poliziotti di rinforzo alla polizia catalana.
In realtà, è da escludere che dietro la scenografia del summit più drammatico per l’Europa ci sia la mano di Draghi: le sedi dei summit sono scelte con largo anticipo. Anzi, c’è il sospetto che la decisione di far tappa a Barcellona, a suo tempo, sia stata presa nella convinzione che, di questi tempi, l’Ue si sarebbe lasciata alle spalle i problemi più drammatici, Grecia in testa. Ahimè, mai ottimismo fu più improvvido. Risuona sinistro il vaticinio lanciato meno di due settimane fa da George Soros a Berlino in occasione del meetig del suo Institute for New Economic Thinking: la situazione dell’Unione europea ricorda quella dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta. Una provocazione? Vero, ma nemmeno peregrina vista la situazione.
Quindici Paesi su 27 della Comunità europea sono ufficialmente in recessione. Sul piano politico, l’elettorato anti-europeo conta un voto su tre in Francia (ammesso e non concesso che gli elettori di François Hollande e Nicolas Sarkozy siano tutti pro-Bruxelles) e si profila un voto di protesta anti-euro sia in Grecia che in Irlanda. L’involuzione finanziaria dello spazio comune è ancor più preccupante: il 39% delle risorse raccolte dalle banche italiane grazie all’operazione Ltro voluta da Draghi è servita a comprare titoli di Stato abbandonati dalle controparti del Nord Europa. La percentuale sale addirittura al 48% per la Spagna.
Insomma, il debito sta tornando “domestico”. E l’assenza di capitali, dirottato sul debito pubblico, riduce le già scarse risorse da destinare agli investimenti. L’austerità si traduce, in assenza della valvola di sfogo della svalutazione, in una brutale deflazione (meno occupati, più emigrazione, meno salario) per il Sud Europa che rischia, a giudicare dagli ultimi numeri, di infettare anche le capitali del Nord: un debitore che smette all’improvviso di far nuovi debiti mette in crisi anche il creditore. Di riflesso, nota Soros, alla Bundesbank si sta già studiando lo scenario di una possibile scissione, con l’evidente preoccupazione di ridurre ancora il rischio del non pagamento da parte degli Stati del Sud. Solo un esercizio teorico, ma, nota Soros, idee del genere possono accelerare processi destinati a diventare realtà.
Insomma, la riunione di Barcellona si apre in un clima incandescente. Le armi a disposizione della Bce, in assenza di scelte politiche “forti” sono limitate. Difficile un calo dei tassi, visto il livello dei prezzi dell’energia. Quasi impensabile la ripresa di operazioni non convenzionali, tipo l’acquisto di asset. Gli effetti dei prestiti di Draghi, pur così utili nel breve, oggi, in assenza di mosse politiche di rilievo, rischiano di rivelarsi dei “semplici palliativi”, nota l’ex segretario al Tesoro Usa Lawrence Summers. “La ricetta europea – scrive sul Financial Times – scambia le cause con gli effetti. L’Europa, con l’eccezione della Grecia che pesa per il 2%, non paga un eccesso di spesa o di dissipazione: Spagna e Irlanda cinque anni fa avevano numeri migliori della Germania, l’Italia ha un debito pesante ma ottimi fondamentali sul deficit. La crisi nasce dal terremoto della finanza internazionale che ha sconquassato le finanze nazionali. Non viceversa”.
Per questo l’austerità rischia di aggravare i problemi. “Per carità, l’intervento sulle pensioni o sulla burocrazia o regole più flessibili sul lavoro – continua l’economista – sono ottime cose, che produrranno effetti nel tempo. Ma ora bisogna intervenire sulle cause, non sui sintomi, Altrimenti, come sa ogni buon medico, il malato peggiora”. Di qui il suggerimento di mettere a disposizione i “tesoretti nazionali” a suo tempo affidati alla Bce per dar vita a un vero piano espansivo. Parole del genere, solo pochi mesi, avrebbero suscitato reazioni stizzite a Berlino o a Parigi. Ma il clima è cambiato, come dimostra l’accoglienza attenta alla Bundesbank di uno degli economisti “eretici” più noti: il chief strategist di Nomura, il taiwanese Stephen Koo, che ha studiato a fondo la crisi giapponese.
In questi casi di recessione, ha detto ospite della banca centrale di Francoforte, le recessioni del nostro tempo, ha detto, non bastano i tassi bassi o nuovo credito che tanto non verrà usato. O le riforme strutturali che accresscono sì la competitività, ma richiedono anni per produrre i primi effetti. Perciò, l’unica strada sensata è una politica fiscale espansiva. L’esatto opposto di quanto è stato fatto nel Vecchio Continente.
Eppure, va riconosciuto, l’Europa non è rimasta ferma: Atene ha evitato il default; Draghi ha messo sul piatto mille miliardi di prestiti a costo quasi zero per le banche, azzerando il rischio della mancanza di liquidità; è stato ratificato il Fiscal Compact; sono state aumentate le dotazioni comunitarie in materia anticrisi, sommando i mezzi dell’Efsf a quelli dell’Esm. Infine, proprio alla vigilia del vertice in terra di Catalogna, l’Unione europea sta raggiungendo un compromesso sull’applicazione di Basilea 3, a proposito del capitale necessario per le banche.
Già il solito compromesso che salvaguarda le banche tedesche e francesi (in difficoltà con criteri più severi) dalla concorrenza altrui anche a costo di “annacquare” l’accordo già siglato presso la Bri. Ma tutto questo, che forse poteva essere sufficiente un paio d’anni fa quando nemmeno il critico più feroce avrebbe scommesso sul rischio della frattura dell’Unione europea (non solo o non necessariamente dell’euro), oggi rischia di non bastare più.
È l’opinione che si fa strada in Usa, ma anche in Cina a giudicare dall’appello lanciato da Li Kequiang, prossimo leader del Drago. Per questo molti guardano con attenzione alle prossime elezioni francesi come alla miccia che può far saltare il castello di carte montato con tanta fatica da frau Merkel e Nicolas Sarkozy. Un castello che forse oggi vacillerà sotto i fischi di Barcellona.