A un mese dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea, a due settimane dalle nuove elezioni in Grecia, e in giornate in cui le banche spagnole minacciano di cadere come birilli, l’eurozona appare come dei pantaloni che necessitano urgenti rattoppi. La Germania e il destino “cinico e baro” sarebbero i principali ostacoli ai rattoppi. Le pezze, a loro volta, servirebbero a guadagnare il tempo necessario per rimettere mano ai difetti di fondo dell’unione monetaria e, se possibile, fare un salto in avanti sulla strada dell’integrazione europea che minaccia di sfilacciarsi un po’ da per tutto.



Vediamo i rattoppi proposti, ricordando che tutti presuppongono un mutamento di atteggiamento da parte della Germania e degli altri Stati “forti” dell’eurozona. Mutamento di cui peraltro non si vedono ancora i segni.

I principali rattoppi consistono nell’essere “meno rigidi” sotto il profilo delle politiche di bilancio e della moneta, nella convinzione che in tal modo si attizzerebbe una maggiore inflazione, ma si attiverebbe la crescita nei paesi le cui economie reali sono in più seria difficoltà e si allenterebbe il fardello del debito sovrano. Siamo davvero sicuri che si tratti della toppa appropriata?



Luigi Einaudi riuscì a portare lo stock del debito pubblico dal 120% al 24% del Pil grazie a una rapida inflazione e a una riforma monetaria, ma lui stesso ammise che si trattava della strategia “più iniqua” nei confronti dei ceti deboli. In quegli anni, si è anche e soprattutto stati aiutati dalla forte produttività (e competitività) del capitale umano dell’Italia che, rimasto improduttivo per un decennio (dalla guerra d’Africa alla fine del secondo conflitto mondiale), ha sprigionato tutte le sue capacità.

Nell’ambito dell’eurozona – ci ricorda Tyler Cowen della George Mason University – una politica di bilancio e della moneta diretta a stimolare crescita inflazionistica potrebbe finire per penalizzare i paesi deboli (e le popolazioni più deboli al loro interno) e rendere ancora più forti la Germania e gli Stati che ne hanno condiviso strategia e risultati.



Particolarmente controproduttivi potrebbero essere gli interventi di “quantitative easing” da parte della Banca centrale europea; non solamente abbiamo visto che misure analoghe nel recente passato – per 1000 miliardi di euro dallo scorso dicembre – hanno avuto quasi nessun effetto – i fondi sono rimasti parcheggiati in impieghi di tutto riposo presso gli istituti bancari (senza raggiungere le imprese e la produzione) -, ma potrebbero accelerare la fuga di capitali dai paesi deboli verso asili più sicuri in quelli forti. Già adesso in Grecia e in Spagna è in atto un deflusso di capitali verso Germania, Austria, Finlandia, Slovenia che il “quantitative easing” potrebbe aggravare in quanto potrebbe essere letto come un segnale che la periferia dell’eurozona è arrivata alla frutta.

Dato che i “project bonds” di cui si parla, visto il loro modesto impatto, servono principalmente a titolare i giornali da parte di chi poco mastica di economia, la toppa più promettente potrebbe essere quella di “socializzare” temporaneamente e parzialmente il debito pubblico tramite “eurobonds”. Sul tappeto ci sono tre proposte.

La più ambiziosa è stata predisposta dal Centro Studi di Bruxelles Bruegel. Il debito pubblico verrebbe diviso in due aree: titoli “blu” e titoli “rossi”. I titoli blu (al di sotto del 60% del Pil di ciascun Stato della zona euro) verrebbero gradualmente socializzati, mentre quelli rossi resterebbero responsabilità dei ministeri dell’E­conomia. In pratica, la fascia blu diventerebbe pari a 5.500 miliardi di euro; ciò creerebbe un vasto merca­to europeo di titoli di Stato affidabili. Potrebbe essere, però, un boomerang: i titoli rossi verrebbero con­siderati tossici e tali da infettare chi li detiene, mandando i tassi d’interesse di questi ultimi alle stelle.

Più moderato il programma delineato dal servizio studi della Rabobank olandese: un programma quadriennale per finanziare essenzialmente Italia e Spagna con titoli biennali garantiti dall’insieme dell’eurozona; è prudente, forse troppo, ma consente un alleggerimento della posizione degli istituti finanziari (degli Stati maggiormente interessati dando loro attivi sicuri e solidi) e se necessario può essere esteso a titoli quinquennali e decennali e avere una maggiore durata di applicazione.

Infine, il Comitato dei consiglieri economici del Governo tedesco utilizzerebbe gli eurobonds per sostituire i debiti che eccedono il 60% del Pil – un mercato di 2.300 milioni di euro – secondo uno schema venticinquennale. È uno schema realistico, ma che deve essere accompagnato da programmi puntuali (e monitorabili) per curare il “male oscuro” dei paesi in difficoltà: la produttività. Altrimenti gli “eurobonds” sarebbero una perdita di tempo che farebbe aggravare la crisi.

Leggi anche

SCENARIO UE/ Il "problema Italia" che decide le sorti dell'euro20 ANNI DI EURO/ Il fallimento europeo che può darci ancora anni di crisiFINANZA/ La “spia rossa” sull’Italexit accesa da Bloomberg