Con l’avvicendarsi in tutta Europa di importanti tornate elettorali, una tendenza sembra consolidarsi tra i paesi del vecchio continente: la voglia di smontare tutto. Le elezioni presidenziali francesi, le legislative greche, le prime schermaglie della campagna elettorale tedesca, le amministrative e le voci di elezioni anticipate in Italia sono accomunate da un sentimento generale di rabbia e frustrazione, fomentato da una considerazione purtroppo sempre più evidente: i problemi sono tanti e manifesti, le soluzioni, invece, non sembrano trovarsi dietro l’angolo.
In questa congiuntura difficile, l’Unione europea rischia di diventare il capro espiatorio su cui accollare colpe vere – ce ne sono – e presunte – esistono anche queste, come vedremo – con l’intento malcelato di riproporre i vecchi stati nazionali come improbabili baluardi anticrisi. I segnali non mancano. Il presidente lussemburghese dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, ha annunciato con ampio anticipo la propria intenzione di lasciare a fine mandato, citando senza mezzi termini “interferenze di Francia e Germania” sull’operato di tutto il gruppo. Nelle stesse ore l’allora candidato socialista all’Eliseo, il neo Presidente Francois Hollande, dichiarava che sul rigore la cancelliera tedesca avrebbe accettato compromessi. In tutta risposta, lunedì Angela Merkel ha rilasciato dichiarazioni non proprio di apertura: il patto fiscale “non è rinegoziabile”. A questo si aggiungano le reazioni palesemente antieuropee che hanno accolto David Cameron al suo rientro in patria dopo la negoziazione, troppo conciliante a detta della stampa e dei sudditi britannici, del patto fiscale europeo. E poi l’Italia, dove ormai un po’ tutti, dai comici agli economisti, si dilettano a promettere scenari idilliaci che passerebbero per la dissoluzione dell’euro e il ritorno alla lira.
In questo panorama a tinte fosche, ha ancora senso per i popoli d’Europa ricercare soluzioni in comune? Vale ancora la pena di proseguire nell’integrazione e restare insieme in un’Unione che da economica e monetaria potrebbe – in molti se lo augurano – diventare politica? Una risposta ragionevole passa necessariamente per un bilancio dei vent’anni – cinque dei quali in piena crisi globale – dell’Ue così come fu disegnata alla firma del Trattato di Maastricht. L’impresa è meno titanica di quanto sembri. Secondo le analisi Bce, gli accordi del ‘92 e i seguenti hanno introdotto all’interno dell’Unione un principale fenomeno economico, a cui l’entrata in vigore dell’euro ha impresso una brusca accelerazione: la specializzazione dell’economia europea.
Di cosa si tratta? In pratica, messe sullo stesso livello dall’eliminazione di barriere e poi dalla moneta comune, le economie europee hanno concentrato le proprie risorse su ciò che sapevano fare meglio, abbandonando lungo la via dell’integrazione quelle attività minacciate dall’eccellenza di altri paesi membri. È chiaro da subito che si tratti di un fenomeno dalle conseguenze ambivalenti e qualche numero aiuta a circostanziare questa sensazione.
Secondo dati Chelem, confrontando le fotografie economiche dell’Ue a distanza di un decennio (1995-2006), tre grandi cambiamenti emergono e tutti sono riconducibili alla specializzazione. Innanzitutto, paesi come Germania, Francia e Olanda hanno abbandonato il settore primario per consolidare le posizioni industriali occupate dai grandi gruppi nazionali. Questi paesi si sono dunque specializzati nel settore farmaceutico, aeronautico e meccanico, nella filiera alimentare, nella logistica e nella grande distribuzione. Un secondo blocco di paesi, capitanati dalla Svezia, ha abbandonato primario e secondario per specializzarsi esclusivamente nel terziario, in particolare nell’informatica, nei servizi alle imprese, nei media e nei servizi finanziari. Oltre alla già citata Svezia, fanno parte di questo gruppo anche Regno Unito, Irlanda, Finlandia, Belgio e Lussemburgo.
A questo punto, qualcuno noterà che nella lista dei settori manca l’indiziato numero uno di ogni analisi economica, il manifatturiero. Qui, infatti, la situazione si complica e il terzo cambiamento spiega bene perché. L’allargamento a est dell’Unione europea ha ridotto la specializzazione manifatturiera degli altri paesi membri, mentre i neo arrivati dell’Est Europa si sono integrati nel – ben presidiato – tessuto economico europeo, affidandosi sempre più al manifatturiero. E così Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria si sono specializzate nell’industria automobilistica, in quella meccanica, nell’elettronica e negli altri segmenti della produzione industriale a tutto vantaggio di chi per ragioni storiche e geografiche è diventato il grande committente di questo enorme bacino produttivo. La Germania, ovviamente. Per quei paesi che negli anni ‘90 avevano iniziato una specializzazione manifatturiera, l’allargamento a est ha imposto, invece, un cambio di strategia. E in alcuni casi, ai problemi creati dall’allargamento europeo – e su cui l’Ue ha raramente trovato soluzioni comuni – gli stati nazionali hanno risposto con ricette a dir poco catastrofiche.
“Il 2009 sarà duro” annunciò con un sorriso un po’ meno smagliante del solito l’allora primo ministro Zapatero. La dichiarazione arrivava alla vigilia del Natale 2008 e per una volta, mercati, euroburocrati e osservatori furono tutti concordi nel dargli ragione. Quello che a oggi resta ancora materia di dibattito, è come un Paese intero possa essersi spinto a specializzarsi quasi esclusivamente in due settori, turismo e immobiliare. La Spagna non è sola nel club degli “iperspecializzati”. Anche in Grecia l’economia si è concentrata in due settori, i trasporti marittimi e turismo. Quest’ultimo è anche la principale voce a bilancio per il Portogallo, mentre nel caso del Regno Unito i servizi bancari e assicurativi rappresentano di gran lunga il settore più competitivo e quindi più vasto rispetto agli altri paesi europei.
E l’Italia? Ancora una volta, il Bel Paese merita un discorso a parte. Per due motivi. Innanzitutto, l’Italia è il Paese meno specializzato in Europa (sono sempre dati Chelem), confermando una lunga tradizione di artigiani e piccole medie imprese rispetto a quei grandi gruppi che altrove hanno svolto un ruolo di catalizzatori nel processo di specializzazione. Alla diversificazione si aggiunge un secondo elemento: l’Italia è l’unico Paese europeo ad aver migliorato rispetto agli altri la propria competitività industriale dagli anni ’90 fino al 2006. I settori di punta sono il tessile, l’abbigliamento e tutta la filiera meccanica, ossia i tradizionali punti di forza delle Pmi nostrane. Perché allora l’Italia non è il paese del Bengodi?
Perché anche l’Italia ha commesso errori (e per elencarli servirebbe un articolo a parte) e perché, sbagli o non sbagli, l’Unione europea non vive su Marte e non è neppure l’unico attore economico del pianeta Terra. A interagire col mercato unico europeo ci sono le agguerrite economie dei paesi emergenti, c’è il colosso cinese, ci sono l’industria nipponica e l’economia a stelle e strisce. E per questa sua diversità, l’Italia mette spesso sui tavoli di Bruxelles problemi che, quando non contrastano direttamente con gli interessi degli altri membri, restano tutt’al più inascoltati. È successo in passato per le regole bancarie di Basilea (che penalizzano le Pmi), per le contraffazioni cinesi dei grandi marchi italiani e più di recente per quegli eurobond che il governo di Berlino vede come un diretto concorrente del Bund.
In questo clima non proprio idilliaco torna con forza la domanda iniziale: ha ancora senso cercare soluzioni comuni? In ambito economico, la questione spinosa della specializzazione ci dona due elementi per tentare una risposta. Primo, i cambiamenti in atto sono grandi, riguardano il lavoro di quasi 300 milioni di persone e non sono privi di contrasti. Secondo, la specializzazione è un compromesso che ha portato insieme economie, e quindi persone, che arrivavano da lontano, non solo geograficamente. È un equilibrio che, dati alla mano, ha permesso all’Unione europea di muovere con realismo i primi passi e tentare una risposta a sfide di dimensione ormai globale.
Se il primo elemento prevarrà sul secondo, le differenze nazionali appariranno insormontabili e la tentazione sarà di smontare tutto. Se, invece, in questi tentativi si vedranno i semi di un progetto comune, allora l’Ue potrà ripartire e varrà la pena di faticare – e battersi – per migliorarla.