Di fronte ai dati negativi dei mercati finanziari (Borsa sotto del 12% in quattro settimane, esodo di 200 miliardi di capitali internazionali dal reddito fisso, rendimenti dei decennali pericolosamente vicini al baratro del 6%), potremmo spendere una sola parola a favore del mese di maggio che si è concluso ieri: a giugno potrebbe andar peggio. Ma, ci consola un report del Crédit Suisse, l’happy end potrebbe essere dietro l’angolo. Molto dipende, ovviamente, dall’esito del voto greco del 17 giugno.



Una frattura definitiva tra la Grecia e l’Europa potrebbe far precipitare una situazione gravemente compromessa. Al contrario, passata la paura, le tecnocrazie del vecchio Continente potrebbero decidere di aver giocato a sufficienza con il fuoco. E far così finalmente partire le riforme necessarie per convincere i mercati che l’Europa è pronta a dar battaglia per la difesa della sua moneta.



In realtà, i giorni decisivi saranno i prossimi, cioè le due settimane che precedono la consultazione ellenica. È in questo lasso di tempo che si potrebbe scatenare l’effetto panico, cioè la corsa a ritirare i depositi dalle banche greche, segnale che, secondo le valutazioni correnti degli analisti finanziari, potrebbe contagiare le altre aree deboli della periferia d’Europa e avviare un circolo vizioso senza via d’uscita. In questo caso l’area euro sarebbe messa a rischio di sopravvivenza. Sarebbe necessario alzare un cordone a difesa degli Stati a rischio, a partire da Spagna e Italia. E sperare che il calo dei tassi operato dalla Bce abbinato a una nuova enorme immissione di denari da parte della Federal Reserve (il cui vertice si terrà poco dopo l’esito del voto greco) sortisca gli effetti sperati.



Contro l’incubo dell’Apocalisse, però, non mancano buone carte a disposizione a partire da due armi preziose: 1) l’aiuto fornito dal calo delle quotazioni del greggio che comporta un grande risparmio per un Paese come il nostro; 2) la debolezza dell’euro, finalmente accettata dagli Usa e dal Giappone: un ulteriore calo della moneta unica è senz’altro la carta che può favorire l’uscita dal tunnel della recessione, aggravata dalla tremenda bolletta del terremoto.

Il destino, insomma, ci offre un prezioso aiuto. Guai a sprecarlo. Ne è consapevole il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che chiede “un cambio di passo” della politica. Ne è più che mai cosciente Mario Draghi, deciso a riprendere in mano l’iniziativa così come nello scorso novembre quando i prestiti della Bce evitarono il collasso da liquidità. Anche stavolta, con il tacito consenso dei tedeschi, la Bce allargherà i cordoni della Borsa con iniezioni di liquidità, qualora necessario. Ma la gravità della situazione impone di andare al di là del palliativo. Ma in che direzione?

Per capirlo si può chiedere aiuto a Richard Koo , strategist di Nomura, che ha tenuto poche settimane fa una seguitissima conferenza a Berlino nella sede della Bundesbank, nonostante professi idee opposte a quelle della banca centrale. Koo, probabilmente il massimo studioso della crisi giapponese, ha sottolineato l’“anomalia” della crisi europea: Giappone, Regno Unito e Usa non hanno fondamentali migliori dell’eurozona, ma possono contare su tassi di interesse del debito sovrano vicini ai minimi. L’area dell’euro, invece, è da sempre spaccata in due.

Negli anni delle vacche grasse, quando la finanza snobbava il rischio, i capitali correvano verso Madrid o Atene perché attrattati da rendimenti allettanti. Il risultato è stata la bolla del mattone in Spagna e un’euforia da spesa irresponsabile in Grecia. Ma quando gli equilibri si sono rovesciati, si è scatenato un fenomeno ancor più perverso: ad esempio, la minor spesa pubblica italiana, spiega Koo, ha liberato risorse che, in assenza di vincoli, si sono indirizzate verso l’area dell’euro che offriva la maggior sicurezza. Un circolo vizioso da cui, secondo Koo, ci si può liberare con un provvedimento drastico: chiudere il mercato del debito sovrano agli stranieri, i Btp devono poter essere comprati solo dagli italiani, i Bund dai tedeschi e così via.

Una provocazione teorica, impossibile da realizzare. Ma che, come tutte le provocazioni, ha un fondo di verità, ben noto a Mario Draghi: non è possibile uscire dall’attuale congiuntura suicida in cui, con poca spesa, pochi vulture fund possono scatenare l’Armageddon finanziario senza tenere in minimo conto i miglioramenti di un Paese. Di qui la necessità di dotare i regulator e le autorità delle armi di pronto intervento, spogliando le autorità nazionali di poteri che si sono rivelati deboli.

Certo, sul fronte delle riforme si deve andare avanti. E, su questo terreno non tutti hanno le carte in regola, cosa abbastanza comprensibile dato che si tratta di far marciare 17 governi. Ma d’altro canto, nessuno attacca il dollaro perché la California è fuori budget o la Florida non riesce a riemergere da una drammatica crisi del mattone, più grave di quella irlandese. Occorre lanciare, in tempi brevi, un forte segnale politico. Come ben sa Mario Draghi che ieri ha lanciato un pesante affondo davanti al parlamento europeo contro gli errori e le manchevolezze della Banca di Spagna che ha lasciato degradare la situazione di Bankia nascondendo la gravità della crisi alle autorità di Francoforte. Ma, ha aggiunto, la stessa critica vale per la banca centrale del Belgio che ha evidenziato gli stessi limiti in occasione del default di Dexia. Per non parlare delle mille omissioni più o meno consentite dalle autorità inglesi di fronte alla voragine di Royal Bank of Scotland, salvata a caro prezzo dai contribuenti inglesi.

Insomma, a cinque anni dallo scoppio della crisi dei subprime, i governi si sono limitati a dare qualche scappellotto ai banchieri di casa, ma hanno evitato, finché è stato possibile, di portare avanti una seria azione all’insegna della trasparenza. Ciascuno ha difeso gelosamente l’orticello di casa senza avviare una seria analisi della crisi. Le Vigilanze nazionali, con l’eccezione della Banca d’Italia e pochi altri istituti virtuosi, hanno messo i bastoni tra le ruote a ogni seria politica comunitaria in materia di credito. Ora, sotto l’incalzare della paura, le cose potrebbero cambiare: Vigilanza unica in cambio della garanzia sui depositi (offerta dalla Bce, mica da Berlino).

Accetterà la signora Merkel? Va rilevato che finora non è venuto alcun veto in questo senso dalla Bundesbank, a differenza di quanto successo per gli eurobond. Oppure frau Merkel potrebbe ritirar fuori dal cassetto la proposta del fondo europeo di ammortamento del debito avanzata proprio da economisti tedeschi pochi mesi fa e gradita ai socialdemocratici: tutto il debito oltre il 60% del Pil dei vari paesi sarebbe messo in comune a fronte di garanzie reali dei debitori (oro, aziende pubbliche, beni immobiliari). Oppure si potrà/dovrà inventare qualcos’altro. Ma qualcosa in grado di convincere i mercati che, qualunque sia la sorte di Atene, l’Europa andrà avanti, ci vuole.

Altrimenti , il peso dei debiti sulla diga di Madrid e Barcellona si abbatterà sull’intera Europa. A partire dall’Italia. E pensare che solo poche settimane fa c’era chi voleva impegnare l’Italia nell’organizzazione delle Olimpiadi, basandosi sul modello di Barcellona o della Coppa America di Valencia, compresi i palazzi di Calatrava. Roba che in parte dovremo accollarci tutti noi, contribuenti d’Europa. Al pari degli ingaggi di Cristiano Ronaldo o di Leo Messi, punte di diamante di club gestiti da imprenditori beneficiati dalla bolla e che campano sui debiti, a differenza dei tedeschi, magari antipatici, ma da ammirare e imitare.

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