A Trieste, la Festa della Repubblica non è mai stata forse molto amata. C’è chi festeggia di più, annualmente, il vecchio imperatore asburgico Francesco Giuseppe, cioè Cecco Beppe. Ma il 2 giugno di quest’anno non ci sarà spazio per alcuna festa, perché va in scena lo “scontro finale” (si fa per dire) nel bel palazzo mitteleuropeo delle Assicurazioni Generali, una “perla” triestina diventata italiana, con un consiglio d’amministrazione straordinario dove la posta in gioco sono le dimissioni del Group Ceo, cioè l’amministratore delegato, Giovanni Perissinotto.
Tanto per intenderci, Generali è la cassaforte del risparmio italiano (quello che ormai non c’è più) ed è stata oggetto del desiderio di grandi concorrenti stranieri, come la francese Axa e la tedesca Allianz. Non solo le famiglie triestine assicuravano la dote delle loro figlie alle Generali. In altri tempi, un famoso accordo tra Enrico Cuccia e Adrè Meyer (Maison Lazard) aveva messo in sicurezza la grande compagnia triestina. E il successore di Cuccia, Vincenzo Maranghi, sapeva bene che cosa significassero Generali, al punto che, quando vedeva “poco chiaro”, non ci pensava molto a cambiare i presidenti.
Fu però proprio nella “pancia” di Generali che i famosi banchieri “che fanno valore” pugnalarono alle spalle Maranghi in Mediobanca, magari con qualche giovane “basista” interno a piazzetta Cuccia. Ora, un gruppo di soci privati, tra cui persone di grande valore come Leonardo Del Vecchio, mettono in discussione Perissinotto, che ha passato la vita in Generali, imputandogli una gestione deficitaria e indicando l’attuale valore del titolo sceso a 8,2 euro. Prima della grande crisi, un’azione di Generali valeva circa 40 euro.
Questa performance negativa, si dice e si ha il coraggio di scrivere, avrebbe costretto Mediobanca, l’azionista di riferimento della grande compagnia di assicurazione, a “chiamare la conta” su Giovanni Perissinotto. A muoversi direttamente sarebbe stato l’amministratore delegato di Mediobanca, il rampante e anche un po’ sgomitante Alberto Nagel, con l’appoggio del board della vecchia banca d’affari, tra cui il capofila del gruppo C (i soci esteri), Vincent Bollorè, che è pure vicepresidente di Generali.
Ma c’è una cosa che stupisce subito e che probabilmente Perissinotto, oltre al comunicato già scritto in cui si rifiuta di dimettersi, metterà sul tavolo: se Generali ha perso valore, che cosa ha fatto Mediobanca in questi anni del dopo-Maranghi? La grande Mediobanca creata da Cuccia è finita sul mercato a 2,80 euro, con una performance peggiore di quella della compagnia triestina, che pure ha nella sua pancia 50 miliardi di titoli della Repubblica italiana, che non sembrano proprio un grande affare, ma un obbligo patriottico.
La sensazione è che a Trieste stia andando in scena una riunione “sanguinosa”, in versione di grottesca sceneggiata, tra una compagnia di “finanzieri-pisquani”, replica provinciale dei “grandi pisquani mondiali”, che si scaricano colpe l’uno contro l’altro per una serie, un groviglio di affari mal gestito, contrassegnato da un’avidità paracomica, da nessun reale progetto industriale, sempre improntati alla creazione di “valore”. La “congregazione degli adepti alla creazione di valore” è lunghissima e rimarrà nella storia per i danni che è riuscita a fare. Ufficialmente, ad esempio, Maranghi venne dimissionato perché “non faceva valore”, anche se Mediobanca era l’unica banca che era veramente in salute all’inizio degli anni Duemila.
In tutti i casi, ritornando al contenzioso di Generali, i capitoli di contrasto sono molti. Si può farne un breve elenco: la famosa “put” con joint venture di Generali con il finanziere ceco Petr Kellner, neppure portata in consiglio d’amministrazione e concepita nello studio di un giovane avvocato padovano, che ha fatto una carriera prestigiosa, essendo oggi il responsabile legale del Leone triestino; la partecipazione in Telecom, vista come il fumo negli occhi da Del Vecchio, con il successivo ingresso in Telco; poi, sul conto di Mediobanca, il salvataggio Fonsai e l’operazione con Unipol spalleggiata da piazzetta Cuccia; infine, che cosa dire dell’operazione Parmalat, con la francese Lactalis finanziata direttamente da Mediobanca, nel suo ufficio parigino, per mere questioni di bottega, con trecento milioni di euro, che ha vanificato il lavoro fatto da Enrico Bondi?
Non dimentichiamo infine una serie di ricambi presidenziali: ci volle quasi l’esercito per dimissionare l’ultraottuagenrario Antoine Bernheim; l’anno scorso il siluramento di Cesare Geronzi e l’arrivo dell’impareggiabile “foglia di fico” di tutte le stagioni, Gabriele Galateri di Genola. Insomma, una serie di partite aperte, anche di carattere personale, di conti da regolare in una generale depressione che investe l’economia per i danni fatti dalla finanza, e che alla fine pagano regolarmente i cittadini, attraverso l’azione dell’ormai noto “governo dei tecnici”.
In fondo anche questa sceneggiata colossale, tra i big della finanza italiana ed europea, ci fa capire la differenza tra altri tempi e quelli in cui viviamo. Se durante uno dei tanti affari Montedison, Enrico Cuccia e Mario Schimberni furono fisicamente divisi, perché, anche se ultrassettantenni, stavano venendo alle mani, ci si trovava di fronte a uno scontro tra due forze. Al momento, in Generali sta andando in scena una sorta di “Baruffe chiozzotte”, con due debolezze al centro del quadrato, sia Perissinotto che Nagel.