Se a un paziente dicono che, se non si cura, ha tre mesi di vita, quello, se non è pazzo, si cura. Ora: l’euro non è un paziente, ma ha dei medici che dovrebbero curarlo. E che, invece, finora hanno scartato scientemente una dopo l’altra le medicine per salvarlo. E a oggi, effettivamente gli rimangono tre mesi di vita. O poco meno. Lo ha certificato, suo malgrado, il capo del Fmi, Christine Lagarde. L’economista stava partecipando a una trasmissione della Cnn quando la giornalista Christiane Amanpour le ha chiesto se fosse d’accordo con George Soros secondo il quale l’Europa ha solo tre mesi per salvare l’architettura dell’euro. Lei ha temporeggiato. Poi, ha risposto che, eventuali interventi andranno assunti prima di tre mesi. «Tre mesi? Forse, trenta secondi», replica a ilSussidiario.net Gustavo Piga, professore ordinario di Economia politica presso la facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. «I leader europei – aggiunge – devono assumere decisioni tempestive. Quanto più ai mercati si trasmette incertezza sui tempi, tanto più gli spread salgono. Il differenziale tra i titoli nazionali e quelli tedeschi è alto perché gli Stati sono estremamente deboli nel rispondere alla crisi. Di conseguenza, trovare le risorse per fare i passi necessari, diventa di ora in ora più complesso». Nulla lascia intendere un’inversione di tendenza: «Finora nessuno ha avuto il coraggio e la forza per far presente alla Merkel che l’austerità, in recessione, aumenta l’instabilità delle finanze pubbliche. In tutti i modi, a tutti i livelli, si è tentato di dimostrare che l’aumento delle tasse e il restringimento spesa pubblica facessero bene ai conti pubblici. E’ stato dimostrato il contrario. Anche da alcuni studi recenti dello stesso Fmi». La soluzione, a questo punto, dovrebbe essere scontata: «deve essere immediata. Altro che riforme. Consiste nel mettere al centro la crescita attraverso il taglio delle tasse e l’aumento della spesa pubblica (leggi come)». Se la politica europea si ostinerà nella direzione sin qui assunta, una delle modalità concrete con cui si potrebbe prospettare la fine della divisa unica è la suddivisione dell’Europa in due aree: «Già adesso si parla un euro-nord e di un euro-sud. Ovvero, di una moneta forte, guidato dalla Germania, e di una debole, mediterranea, fortemente svalutata. Una volta che la Grecia si  fosse defilata, inoltre, molti Stati potrebbero decidere di seguirla. Scoprendo che, economicamente, non si sta così male». La questione, infatti, non è solo economica. «L’euro è, anzitutto, una struttura politica. Fatta per riappacificare un continente, avvicinarne gli stati culturalmente e creare opportunità di scambio. Con la fine della valuta unica, i rapporti tra Paesi peggioreranno inevitabilmente». 



Ecco cosa accadrebbe in Italia: «Si determinerebbe una forte svalutazione rispetto al marco. Non tanto come quella di Spagna e Grecia, perché disponiamo di una forte economica manifatturiera. Ma a questo si aggiungerebbe una fase di grave crisi politica che determinerebbe un rallentamento nella realizzazione di tutte le opere infrastrutturali necessari per il rilancio delle politiche economiche». Quindi? «Non resta che far percepire alle persone che il vantaggio politico è accompagnato da una speranza economica. La gente, infatti, si sta convincendo che è colpa dell’euro se l’Europa non cresce, quando le colpe sono esclusivamente dei leader dell’europei e dall’assenza di politiche monetarie e fiscali più espansive».  



 

(Paolo Nessi)

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