L’Italia deve garantire il 22% dei fondi per il salvataggio per le banche spagnole, questo nonostante lo spread di questi giorni sul Bund (area 490 punti base martedì scorso, il 6,30% di rendimento) ci dica chiaramente che non siamo – come Paese – in grado di finanziarci sul mercato a tassi sostenibili. Detto fatto, non c’era mezzo migliore per metterci nel mirino dei mercati. E infatti ieri mattina si è registrato un balzo dei rendimenti dei Bot annuali in asta per 6,5 miliardi di euro: il tasso è schizzato dal 2,34% di maggio al 3,972%, ai massimi di dicembre. Certo, i titoli sono stati interamente collocati, ma a che prezzo? Interpellato dall’Ansa, un operatore ha così commentato l’emissione: «Ci si attendeva più o meno questi livelli, certo la domanda è in lieve calo, ma c’è da dire che l’intero ammontare di 6,5 miliardi di euro è stato collocato a fronte di una domanda di 11,2 miliardi. Il momento è comunque difficile e forse l’andamento delle aste dei titoli di stato può servire a far agire in maniera rapida chi ha responsabilità nazionali ed europee».
Eh già, occorre agire. Unite però a questo, la simpatica propensione del ministro delle Finanze austriaco, Maria Fekter, a non tenere la bocca chiusa e pensare ai fatti di casa propria – Mario Monti le ha risposto con il silenzio, quando avrebbe potuto sottolineare come tre banche del suo Paese abbiano subito la scorsa settimana un pesante downgrade da S&P’s, uno dei quali dovuto a perdite legate a scommesse su cds, non proprio erogazione di credito e gestione del risparmio come policy – e il gioco è fatto.
Certo, il direttore generale di Fitch, Ed Parker, in un’intervista a Bloomberg ha dichiarato che «è improbabile che l’Italia abbia bisogno di un salvataggio, perché il Paese è in una situazione migliore rispetto alla Spagna. L’Italia ha un deficit di bilancio molto basso, come così pure un deficit delle partite correnti e non ha problemi di banche», ma altri la pensano diversamente. E in modo pericolosamente interessato e strumentale. Ad esempio Citigroup, la quale nel weekend si è sentita in obbligo di lanciare un bel warning sul nostro Paese, ricordando come l’economia si contrarrà del 2,5% quest’anno e di un altro 2% il prossimo a causa della stretta fiscale, la quale avrà pesanti implicazioni per le dinamiche di debito: la previsione è che la ratio debito/Pil salirà dal 121% al 137% nel 2014. Per Citigroup «la situazione potrebbe rapidamente divenire critica, a causa della vulnerabiltà del Paese in caso di persistenza o intensificazione della crisi dei debiti sovrani. Un significativo e ulteriore aumento dei rendimenti potrebbe far estendere e rendere più profonda la recessione e accelerare la crescita della ratio debito/Pil, innescando un circolo vizioso. Ci aspettiamo che l’Italia dovrà chiedere aiuto».
Lo ha confermato martedì la Bce nella sua Financial Stability Review: «Fra i principali rischi per la stabilità finanziaria c’è il potenziale aggravarsi della crisi del debito per i titoli sovrani dell’area euro». Non a caso, il fondo sovrano cinese ha detto chiaro e tondo che sta ritirandosi dal mercato del debito europeo, temendo un crollo della moneta unica: Pechino compra solo Bund a zero interessi od Oat francesi a poco più, sicuri che comunque le due nazioni riusciranno a emergere dalle eventuali macerie dell’eurozona. In tempi simili e con il senno di poi, era davvero necessario trasformare in testo sacro quanto richiesto dall’Eba, costringendo molte banche europee – alcune sotto minaccia di nazionalizzazione – a tagliare i loro bilanci con la mannaia per raggiungere il risultato del core Tier 1 del 9% entro luglio di quest’anno?
Certo, perdite da 800 miliardi di dollari nei prestiti cross-border nel solo quarto trimestre del 2011 richiedono ratio di capitale più alte, ma non nel pieno di una depressione e non decapitando i prestiti. La Spagna deve strizzare la spesa per il 4,5% del Pil nello stesso periodo in cui la disoccupazione ha toccato il 24,4%, dal 7,9% del 2008, mentre l’Italia deve dimagrire del 3,5% quest’anno, nonostante l’avanzo primario. La situazione è tale nell’eurozona che con un comunicato overnight Saxo Bank ha reso noto che «a causa dell’attuale ambiente di mercato in Europa, stiamo aggiustando le nostre richieste di margine sul franco svizzero», destinate a salire dall’1% al 2% il 14 giugno e dal 2% al 4,5% dal 21 giugno. Insomma, quadruplicate! Cosa significa questo? Una forma di controllo sul capitale, visto che più salgono i margini, più si va incontro a una proibizione de facto del trading sul forex. Per ora è il franco, quali altre monete seguiranno l’esempio? Ma non pensiate che siano solo i soggetti privati a ragionare ormai su logiche emergenziali.
Il Sussidiario è venuto a conoscenza da primarie fonti europee di piani di discussione riguardanti controlli sul capitale che contemplerebbero ammontare fissi per i prelievi bancari o la loro sospensione temporanea e coordinata, l’obbligo di detenzione per banche o cittadini di debito sovrano, la sospensione dei trasferimenti bancari esteri e delle transazioni sul forex internazionale, la fissazione di tassi di cambio ufficiali che scoraggino le transazioni su base di mercato e norme che rendano meno semplice e conveniente l’acquisto e la detenzione di metalli preziosi, intesi come bene rifugio per il capitale. Siamo alle soglie del baratro, nonostante si cerchi come al solito di minimizzare e di invocare soluzioni condivise di un’Europa che sta agendo invece in ordine sparso, con ogni Paese chiaramente intenzionato a cautelarsi e coprirsi nel modo migliore dai rischi che la disintegrazione dell’eurozona porterà con sé.
Mentre le autorità europee si preparavano al vertice che nel weekend ha di fatto varato il salvataggio del sistema bancario spagnolo, infatti, una notizia passava sottotraccia e faceva riacutizzare i timori per un opt-out dall’eurozona. Con una nota diffusa attraverso Marketwire, la canadese Fortress Paper Ltd. rendeva noto che la sua sussidiaria svizzera, detenuta al 100% e numero uno per la fabbricazione e stampa di banconote e security paper, Landqart AG, «ha visto riattivato un ordine per banconote materiali che era stato inaspettatamente sospeso nel quarto trimestre del 2011 e che aveva impattato negativamente sui risultati finanziari del primo trimestre 2012». Insomma, dal Canada è giunto un siluro alla stabilità dell’euro sotto le mentite spoglie di un rituale comunicato alla stampa riguardo i risultati finanziari dell’azienda. Non a caso, il presidente e ceo del gruppo, Chadwick Wasilenkoff, ha tenuto a sottolineare in una nota congiunta che «il rientro in operatività di quest’ordine, in un primo tempo annullato, garantirà a Landqart momentum per realizzare nuovi ordini e massimizzare l’efficienza operativa».
In attesa che un Vix in salita a 80 certifichi l’impatto devastante di un’uscita della Grecia dal’eurozona, non resta che lasciarsi andare alle congetture: al netto del fatto che la richiesta avanzata alla Landqart non può che arrivare da un Paese dell’area euro che punti a reintrodurre una sua valuta sovrana, chi sarà l’indiziato? La Grecia o la Germania? Io dico il primo, visto anche il tasso di prelievi dalla banche elleniche, giunto a 500 milioni di euro al giorno! Oggi vanno in asta bonds a medio e lungo termine, vedremo cosa ci dirà il mercato: una cosa però è già certa, la Spagna è il passato. Nel mirino c’è l’Italia.