Come finirà il film? Scegliete la trama che più aggrada, come in Rashomon. I più, com’è comprensibile, punteranno sull’happy end: ad Atene sfuma la tentazione di eleggere un premier, l’ormai noto Tsipras, che faccia saltare l’accordo dell’inverno scorso. I depositi ritirati dai Bancomat sotto l’Acropoli escono da sotto i materassi, il Crédit Agricole rimette al contrario nei cassetti il piano di sganciarsi dalla sua disgraziata banca greca. Le Borse, of course, festeggiano.



Matti incosceinti, ribattono i più problematici. Non vi ha insegnato nulla la Spagna? Lunedì scorso, all’apertura dei listini, i mercati finanziari sono partiti a tutta birra. Ma meno di due ore dopo l’euforia ha ceduto il posto ai brividi della paura. La Spagna, tutto sommato, aveva risolto poco o nulla: Madrid è solo all’inizio di un cammino doloroso che non sarà facile percorrere. In cambio, il commissariamento della Spagna da parte dell’Ue ha esposto in prima fila il vero malato d’Europa, quello su cui si gioca il futuro dell’euro: l’Italia, quel gigante del debito che tutti i mesi deve batter cassa, in media, per ben 35 miliardi di euro per sostenere il rimborso dei debiti e far fronte alle esigenze di cassa.



Mica poca roba, perché 35 miliardi vogliono dire il Pil di un anno intero di Malta, Cipro ed Estonia, tre piccoli Paesi, ma anche tre membri a pieno titolo dell’Ue. Anzi, lo sapete a chi tocca la presidenza dell’Ue dal prossimo primo luglio? Nientemeno che a Cipro, che in quel momento avrà il suo bel daffare per districarsi tra “buchi” bancari, soldi sottobanco in arrivo dalla Siria sotto embargo e prestiti più o meno ufficiali in arrivo dalla Russia che usa Cipro, tra l’altro, come piattaforma per il suo export di armi in Medio Oriente. Con un presidente così, magari capace di condizionare le mosse del nuovo governo di Atene (a Nicosia non c’è evasore fiscale che non abbia il suo bel conto) e di inasprire quelle dell’eventuale opposizione di Tsipras (più rigido e cattivo senza compiti di governo) il risultato è scontato: dopo un paio di giorni di rialzo i listini azionari e del debito andranno a ramengo. Italia compresa…



Ma, come in Rashomon, c’è pur sempre la terza via: le elezioni , come i vertici europei , sono tanto decisivi alla vigilia, quanto incapaci a sciogliere una matassa che sia una nel dopo. Andrà così anche ad Atene, Paese che comunque avrà bisogno di nuova “cassa” (almeno 25-30 miliardi) per pagare gli stipendi fino alla fine di agosto ed evitare così brutte rivolte d’estate che possano turbare il giusto riposo dei lavoratori di Volkswagen o Deutsche Bank pronti a calare nelle isole e sul Peloponneso per sfruttare la voragine dei prezzi. Ci sarà però il solito braccio di ferro con la Germania? Facile, ma stavolta, per fortuna, arriveranno le truppe fresche della Federal Reserve capitanate da Elicottero Ben. Il generale Ben Bernanke pronto a bombardare i mercati di nuova liquidità, dopo il vertice della banca centrale Usa della prossima settimana, l’ultima occasione utile prima che si entri nel semestre preelettorale, quando il galateo della politica Usa impone alla banca di astenersi da gesti che potrebbero infuenzare il voto (magari, per la maledizione dei Maya, si potrebbe far eccezione). E così le Borse continueranno a galleggiare, mentre la Bce (con il tacito consenso della stessa Bundesbank) permetterà ai Btp di galleggiare in attesa di novità. E delle vendite di Stato di Mario Monti, insigne manifestazione di ottimismo della volontà in mezzo a tanto pessimismo.

Ecco, scegliete il quadro che preferite. Nessuno, a dire il vero, oggi dispone di sondaggi davvero affidabili su come la pensano davvero gli elettori greci. O tantomeno dove voglia andare a parare la Germania di Frau Merkel. Alla vigilia di una settimana che si annuncia “decisiva” (mai parola fu più abusata a sproposito), segnata com’è da vertici a due e a tre in vista del meeting del 28/29 giugno, il quadro delle proposte resta confuso:

A) L’ipotesi degli eurobond viene respinta con la massima energia da Berlino. A questo punto, del resto, non sono in pochi a pensare che una mossa del genere serviverebbe solo a scatenare un’offensiva finanziaria in grande stile capace di coinvolgere la stessa Germania. La crisi, che mille giorni fa si poteva fermare con un aiuto di qualche decina di miliardi ad Atene, oggi sembra ingovernabile anche a metter in comune risorse ben superiori.

B) La riduzione dei tassi, necessaria per contrastare la recessione, trova forti opposizioni nel Nord Europa: i fondi pensione scandinavi, ad esempio, hanno ormai enormi difficoltà a remunerare le pensioni, anche perché diminuisce il numero dei titoli con un buon rating. La Germania, all’apparenza, sta con loro. Ma in realtà approfitta della crisi per fare il pieno di denaro a costo infimo, a tutto vantaggio della macchina industriale di Berlino. Prima o poi una politica del genere si tradurrà in un boomerang. Ma la storia ci insegna che, a differenza dell’imperialismo anglosassone, la Germania non concepisce l’idea di vivere sull’export dei sudditi, accumulando passivi commerciali.

C) In realtà, la Germania di proposte ne fa tante, anzi troppe. Sì all’unione politica, dopo quella fiscale. E nel frattempo sì all’unione della vigilanza bancaria purché si accompagni a una cessione di una fetta di sovranità che, come i tedeschi sanno, incontra grandi difficoltà in Francia. Insomma, tanti progetti ma rivolti a quell’orizzonte di medio-lungo termine al cui fondo “saremo tutti morti”.

D) La soluzione potrebbe stare nel “redemption fund”. In sintesi: l’Europa si fa carico delle garanzie del debito pubblico oltre il 60% del Pil. In cambio i Paesi si impegnano a rientrare in quel limite. Il che per l’Italia sta a indicare uno sforzo annuo di una trenatina di miliardi. In più, occorre fornire sul 60% dell’Ue, garanzie reali (l’oro della Banca d’Italia, ad esempio). Sembra l’ipotesi più concreta, ma comunque non immediata.

E) L’Europa, insomma, di sicuro uscirà dal vertice con qualche annuncio importante e solenne. Ma è assai difficile che metta sul piatto risorse e convinzioni politiche sufficienti a modificare l’opinione dei mercati che danno l’euro a grave rischio. Il tempo, però, gioca contro: gli Usa, a partire da luglio dovranno pensare ai loro problemi fiscali; la Cina, alla vigilia della staffetta al vertice dello Stato e del Partito è concentrata su se stessa, semmai decisa a isolare il celeste Impero dalle follie degli europei.

Insomma, non c’è di che stare allegri. Si continua a danzare sull’orlo del vulcano, nel timore che possa precipitare la crisi della moneta unica. Un’eventualità concreta che, però, è anche l’unica garanzia che il Vecchio Continente sia obbligato a tener la guardia alta e a tentare la strada di una soluzione che chiederà rinunce un po’ a tutti. Anche all’Italia, che pure di sacrifici ne ha già chiesti non pochi ai suoi cittadini. E altri ne chiederà se vorrà ostinarsi a farsi del male. Ovvero, a guardare al numero degli esodati, ma non alle cause che hanno consentito di scaricare sulle spalle dello Stato la sorte di tanti cittadini che potevano e spesso volevano continuare a lavorare. O a lanciare grida di dolore sulla sorte dei giovani senza lavoro una volta al mese, quando escono le statistiche dell’Istat salvo poi alzare la saracinesca ogni volta che si profila una mossa verso la flessibilità vera che può garantire una strategia per l’occupazione.

L’Italia che già affila le armi per vanificare gli sforzi di Monti a privatizzare per davvero il patrimonio pubblico e gli assets. Quella burocrazia, statene certi, è più tosta e rigida di frau Merkel.

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