“Anche la forza della Germania non è infinita, anche le nostre capacità non sono illimitate”. E’ l’avvertimento di Angela Merkel agli altri paesi in vista del G20 di Los Cabos, dove si dibatterà della crisi dell’Eurozona. Il Cancelliere tedesco ha ribadito il suo no agli eurobond, che prevede una mutualizzazione del debito, rivendicando che la colpa è dell’indebitamento fuori controllo di alcuni Stati e della loro mancanza di competitività. Per Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata, «il progetto di unificazione dell’Europa non può basarsi su un cambiamento del Dna dei singoli Stati, per esempio pretendendo che la Grecia diventi come la Germania. I Paesi più ricchi devono accettare di trasferire una parte del loro Pil a quelli più poveri, proprio come è avvenuto al momento dell’unificazione tra tedeschi dell’Est e dell’Ovest».
Professor Piga, come è possibile che la Merkel sia ancora ferma sulle sue posizioni?
E’ evidente che da parte sua c’è la richiesta di una soluzione europea, che quindi deve essere condivisa. Nel momento in cui una maggioranza di Paesi si trova a cercare una soluzione che non è amata dai tedeschi, tutte le pressioni finiscono sulla Merkel. Posso anche comprendere lo “stress” cui si sente sottoposto un Cancelliere che tra un anno dovrà affrontare il voto e il cui elettorato capisce sempre meno il senso di un’Europa che, particolarmente per i tedeschi, chiede e basta.
Eppure i no tedeschi mettono a rischio il progetto comune dell’Europa …
Se la Merkel decide di non aderire alle richieste del G20, immagino anche che abbia fatto un ragionamento sulle conseguenze di questa scelta. La politica europea tedesca in questo momento non si concilia bene con le esigenze dell’Europa.
Quale può essere il punto d’incontro tra le esigenze tedesche e quelle del Sud Europa?
Ormai il tempo è quasi scaduto e trovare una soluzione è sempre più difficile. In questo momento c’è bisogno di un’enorme domanda aggregata da parte degli Stati per fare ripartire il motore dell’economia, evitare che le imprese chiudano e fermare la disoccupazione. Occorre quindi molta più domanda pubblica, in un momento in cui più nessuno domanda. Questa è l’unica strada percorribile e va intrapresa a livello europeo: dobbiamo prendere atto del fatto che tutte le politiche adottate finora non hanno funzionato. Lo stesso eurobond ritengo che non sortirà effetti, perché richiede troppo tempo per entrare in moto e carica ulteriormente il peso sulle spalle della Germania. Quantomeno, una politica più espansiva della Bce comporterebbe richieste dirette meno evidenti sui cittadini tedeschi.
Ritiene che si stia andando verso l’uscita dall’euro?
Sarebbe una grave ferita per la costruzione europea, che sarebbe ritardata di molti anni. Non è possibile uscire dall’euro e nello stesso tempo restare nell’Europa come se nulla fosse. Il vero problema è che di fronte alla crisi, la Germania deve mostrare maggiore flessibilità e cambiare leggermente le regole. I mercati capirebbero, a condizione che finito il momento difficile si ritorni alle norme precedenti.
Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha richiesto “equilibrio fra il debito comune e il controllo”. E’ d’accordo con lui?
Assolutamente no. Quella di Weidmann è un’idea sbagliata di quelli che dovrebbero diventare gli Stati Uniti d’Europa, che si basa sull’idea che il sistema degli Stati Uniti d’America funzioni secondo determinati criteri. In realtà non è affatto vero per due ragioni, la prima delle quali è che gli Usa sono arrivati a un sistema federale dopo circa 150 anni dalla loro nascita. Fino al 1910 in America la tassazione federale era pari a circa il 2% del Prodotto interno lordo, e ogni Stato manteneva gelosamente il controllo di entrate e uscite. Gli Stati erano ancora culturalmente molto diversi e si sapeva che per tenerli uniti occorreva lasciare loro una certa autonomia. Solo dopo una guerra di secessione e un avvicinamento tra i vari Stati, anche per merito di un miglioramento dei trasporti, è aumentata la presenza dello Stato federale.
In che modo?
Ancora oggi ogni anno in America gli Stati più ricchi trasferiscono circa il 10% del loro Pil a quelli più poveri, che sono sempre gli stessi. Il Mississippi è lo Stato più povero oggi come lo era 100 anni fa, e pur avendo adottato diverse riforme non è diventato come Massachusetts o California. A nessuno viene in mente di chiedergli che ciò avvenga sotto la minaccia di multe come fa l’Ue nei confronti della Grecia. C’è un’enorme valore nella diversità tra le culture degli Stati che va preservata.
Che cosa occorre fare quindi per andare verso gli Stati Uniti d’Europa?
Cominciamo a dare il 10% del nostro Pil ai nostri fratelli greci. Se riteniamo che non siano i nostri fratelli greci, è una scelta legittima comportarsi di conseguenza. I tedeschi del resto dovrebbero saperlo bene, perché la Germania Ovest ha pagato ben oltre il 10% del suo Pil per l’unificazione con l’Est. Se vogliamo veramente realizzare anche in Europa un’unione come gli Stati Uniti, dobbiamo essere pronti a dire che la Grecia non sarà mai come la Germania. Qualsiasi progetto che preveda un cambiamento nel Dna delle nazioni europee, significa distruggere l’idea di Jean Monnet di basare l’Europa su due principi fondamentali: libertà e diversità.
(Pietro Vernizzi)