Lo scontro nel consiglio di amministrazione di Generali c’è stato e, secondo il copione della grande sceneggiata, il Group Ceo, cioè l’amministratore delegato dal 2001, Giovanni Perissinotto, è stato dimissionato. La partita l’ha vinta l’azionista di riferimento, cioè Mediobanca, guidata dall’amministratore  delegato Alberto Nagel. Il risultato della conta finale nel Cda è il seguente: dieci contro Perissinotto, cinque a favore, uno astenuto. La partita è chiusa? L’impressione è che sia stato chiuso il primo round di un match durissimo, che può rischiare di finire addirittura nelle aule di un tribunale.



A quanto risulta, ma sono solo voci, le urla, più che il dibattito, in Cda, si sentivano nei corridoi del vecchio palazzo asburgico del Leone di Trieste. Il commento un po’ generico, ma scontato, è quello di una riunione “infuocata”, anche perché Perissinotto non aveva alcuna intenzioni di dimettersi e aveva diramato ieri un comunicato pesantissimo. Appena concluso il Consiglio, Diego Della Valle, che è stato a fianco di Perissinotto, ha annunciato le sue dimissioni dal board di Generali. Dimissioni che non promettono nulla di buono, anche perché lo stesso Giovanni Perissinotto non pare avere intenzione di passare la mano senza riservarsi un colpo di  coda avvelenato. I motivi di contrasto sono tanti e spesso formano un groviglio dove è difficile trovare il bandolo della matassa. Ma a grandi linee, lo abbiamo già fatto ieri. Si sa che Perissinotto è accusato di una gestione deficitaria, con scelte discutibili. Il titolo di Generali, la cassaforte del risparmio italiano, è crollato a un valore di 8 euro e mezzo circa.



Poi c’erano grandi soci, come Leonardo Del Vecchio, che non sopportavano le partecipazioni prima in Telecom e poi in Telco. Ma probabilmente il vero nocciolo della questione va cercato nell’operazione tra Fonsai (Fondiaria-Sai) e Unipol, sostenuta dal board di Mediobanca e messa in discussione da Perissinotto. Anzi, secondo l’accusa, addirittura ostacolata, con questa ricerca continua di conoscere la realtà degli asset di Unipol, che qualcuno, non solo Perissinotto, non valuta di prima qualità. Nagel non ha sopportato tutto questo e, cogliendo lo scontento di altri grandi soci, per motivi diversi, ha sferrato il suo attacco. Non si è portato dietro solo Del Vecchio, ma anche Francesco Gaetano Caltagirone, il vicepresidente francese Vincent Bollorè, che deve ancora digerire il doppio siluramento di Antoine Berheim e di Cesare Geronzi, e Giovanni Pelliccioli. Nagel è stato coperto da questi grandi soci, che hanno subito dichiarato che “volevano e sollecitavano un cambiamento”, indipendentemente dalla posizione di Mediobanca. Sono uomini d’onore, non in senso metaforico, e gli si può credere.



Ma può anche essere che gli interessi alla fine si intreccino e si affianchino, in una situazione di crisi e di polverono finanziario come quello in cui stiamo vivendo. La joint venture con il finanziere ceco Petr Kellner, la famosa “put” gestita in un ufficio legale di Padova, senza passare dal Consiglio di amministrazione, non deve essere stata digerita tanto bene. Tuttavia, c’è una sensazione da cui è difficile discostarsi.Ammettendo anche gli errori del board di Generali, c’è forse un concreto interesse, in questo momento, a distogliere l’attenzione dal board di Mediobanca. Quando Vincenzo Maranghi, il delfino di Enrico Cuccia, fu scandalosamente dimissionato, con  una scalata a tradimento proprio su Generali, aveva lasciato Mediobanca  in floride condizioni, con quattordicimila miliardi di lire, tra i sette e gli otto miliardi di euro.

I “genietti” della nuova finanza rampante, quelli che hanno sostituito Maranghi, complice certamente anche la crisi del 2007-2008, si trovano ora con una Mediobanca che ha dovuto chiedere alla Bce più di sette miliardi di euro al tasso dell’uno percento. E se Generali è caduta di valore, Mediobanca, che oggi vale 2 euro e mezzo circa per azione, ha fatto una performance ancora più negativa. Forse c’era da mettere in discussione la controllata Generali, ma probabilmente bisognerebbe mettere in discussione anche lo storico azionista di riferimento, che è sempre stato al centro di ogni manovra cruciale e strategica negli assetti della finanza italiana. Diego Della Valle, ad esempio, nell’annunciare il suo abbandono dal board del Leone triestino, ha detto che sulla richiesta delle dimissioni di Perissinotto “non era d’accordo né sulla forma né sulla sostanza”. 

E sempre Della Valle, qualche mese fa, aveva bollato di “inadeguatezza”  l’attuale board di Mediobanca. E’ per questa ragione che, una volta consumato questo strappo, abbastanza lacerante, si può pensare che la partita non sia ancora del tutto chiusa e abbia invece strascichi diversi e complicati. Al momento, al posto di Perissinotto, è arrivato il solito ottimo manager, Mario Greco. Vedremo come si sistemeranno le cose. Ufficialmente la partita, l’hanno vinta i grandi soci scontenti e soprattutto Alberto Nagel. Ma chi può dire, in un periodo come questo, con la nuova immagine che Mediobanca si sta creando che questa non sia solo una “vittoria di Pirro”?