Sono almeno tre anni che sul Sussidiario – luogo culturale privilegiato per le cause “di minoranza” – difendiamo il cancelliere tedesco Angela Merkel. Ci ha sempre colpito il suo rigore: non quello economico-finanziario, ma quello politico-intellettuale. La sua idea che la crisi senza precedenti provocata dall’oligopolio finanziario anglosassone imponesse una riflessione seria sugli standard di un “vivere civile” ormai interconnesso a livello planetario.
La “dottrina Merkel” non è affatto tecnica, non si sostanzia nei “no” al salvataggio della Grecia o agli eurobond. Il suo principio del “pareggio di bilancio” (imposto anche all’Italia e vissuto come ennesima e arrogante ottusità tedesca) è in realtà un postulato culturale: Stati, imprese e cittadini non possono vivere “a debito”, devono ripartire dall’equilibrio delle finanze pubbliche e da una reale competitività delle loro economie. La moneta (è questo il vero terreno di scontro mortale con gli Usa e la loro idea di finanza) non è un semplice strumento adattabile alla bisogna, tanto meno un “prodotto” da giocare su mercati privati: la moneta e il credito sono “bene comune” delle società e simbolo-veicolo della sovranità di grandi collettività democratiche (Stati o unioni di Stati). Economia e finanza sono “responsabilità” e “stabilità”, non “rischio e azzardo” darwiniani nella giungla individualistica di mercati che spesso sono tutto fuorché “liberi”.
Fin dall’inizio l’exit strategy “fondamentale” della signora Merkel è entrata in rotta di collisione con i codici delle moderne Compagnie delle indie; le banche d’affari apolidi cui il presidente George Bush aveva consegnato le chiavi dell’Azienda America dopo l’11 settembre. Loro hanno inondato America ed Europa di finanza, accumulando valore aggiunto per sé e dissanguando l’economia reale: con l’idea che moneta e credito – spinti dal mercato apparentemente oltre la velocità della luce – consentissero una nuova “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Ma i miracoli non sono mai stati nel “portafoglio” dei banchieri e anche stavolta un grande falò ha incendiato l’economia europea e americana; sì, perché in Cina, Brasile, Sudafrica, l’economia reale ha funzionato sempre meglio dopo il 2008.
E questo continua a dare ragione alle signora Merkel: che ha (quasi) perso la sua battaglia in difesa di un “buon” euro, per la democrazia di tutti contro l’oligarchia di pochi, per un’economia (sociale) di mercato con regole vere e senza più trucchi. Però – almeno per il vostro modesto notista – continua ad aver ragione lei con la sua vecchia “civiltà europea”, per di più messa alla prova dall’occupazione sovietica della Germania orientale. Invece, l’attacco finale e personale del presidente Obama (in campagna elettorale) autorizza nuovi interrogativi su “chi comanda a Washington”: oggi come alla scorsa tornata per la Casa Bianca, quando Obama contò su un budget enormemente superiore a quello dello sfidante McCain.
A Berlino, per lo meno, il ministro dell’Economia non è l’ex presidente della Goldman Sachs o della Fed di New York. Né a Berlino il presidente della JP Morgan, Jamie Dimon, siede nell’organo di vigilanza che avrebbe dovuto impedirgli di perdere altri 5 miliardi di euro in derivati. Ovviamente nessuno lo arresta (come invece avviene puntualmente per i banchieri italiani, giusto o sbagliato che sia) e lui è seriamente intenzionato a continuare nella sua attività di imprenditore orientato al profit sul libero mercato della finanza. Poi però la colpa e tutta della signora Merkel che non vuole stampare carta-moneta e che non ha idee chiare e soprattutto elastiche su quali sono standard “moderni” di “governance politico-economica globale”. (Gianni Credit voterà Merkel alle prossime elezioni euro-tedesche).