Stop alle telefonate. Per lo meno, a tutte le interurbane, alle internazionali e a quelle verso i cellulari. E’ la nuova direttiva contenuta in una circolare emanata dal ministro Filippo Patroni Griffi e indirizzata ai dipendenti del ministero della Funzione pubblica da lui presieduto. Che, d’ora in avanti, dovranno chiedere il permesso ai propri dirigenti per effettuare chiamate fuori Roma. Un’iniziativa nata in seno alla Spending review. Con l’intendo di lanciare un messaggio preciso: «l’amministrazione pubblica è come la nostra casa» ha scritto il ministro. E, come in ogni famiglia, eliminare le spese superflue, anche se minime, è un’attività di buon senso. Sì, ma trattandosi di un ministero e non di un famiglia, lo è? Interpellato da ilSussidiario.net Stefano Lucarelli, ricercatore confermato di Economia Politica presso il Dipartimento “Hyman P. Minsky” dell’Università di Bergamo, afferma: «Si tratta di affermazioni che riflettono l’incompetenza rispetto alla gestione concreta della pubblica amministrazione. Certo, di per sé, ritenere che il settore pubblico possa funzionare in maniera più efficiente, e che sia compito degli amministratori pubblici e dei politici introdurre adeguati incentivi e sanzioni allo scopo ha senso. Questo, tuttavia, vale a livello generale. Nello specifico, gestire il personale è una pratica estremamente complessa, che richiede un’attenta diversificazione». Nel concreto, rispetto all’imposizione sulle telefonate: «Non può valere la stessa regola all’interno di diversi uffici. Ci sono esigenze di natura differente e non è pensabile che tutti i dipendenti debbano seguire la medesima procedura per effettuare chiamate non urbane. Le parole di Griffi, quindi, preannunciano un  grado alto di confusione rispetto alle procedure stesse della spending review».



Tra le recenti ipotesi più controverse vi è anche quella del prepensionamento per gli statali over 60. «Si tratta di un intervento – continua Lucarelli – che testimonia il livello di improvvisazione del Consiglio dei ministri; il governo, infatti, da un lato sa che deve intervenire sulla crescita e, dall’altro, ancora insegue l’idea secondo cui sia possibile guadagnare la fiducia degli investitori a colpi di riduzione della spesa. Senza ragionare, tuttavia, su dove tagliare e sugli effetti che i tagli potrebbero sortire». Errori di questo genere sono il frutto di una logica sbagliata alla radice. «Nel rapporto del ministro Giarda si evince come il metodo di base adottato sia del tutto opinabile. Esso, infatti, consiste nel tagliare quelle voci di spesa al di sopra della media europea». 



Tuttavia, non  è possibile comparare la macchina amministrativa dei vari paesi membri. «L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, i ruoli dei ministeri, e la natura delle istituzioni variano da Paese a Paese. Un conto, infatti, è una Repubblica presidenziale sul modello francese, un altro, una fondata sul bicameralismo perfetto come la nostra.  Le voci di finanziamento della pubblica amministrazione, inoltre, vanno considerate in maniera diversa se prendiamo in considerazione uno Stato ove sia applicato un federalismo fiscale realmente funzionante, dove gli enti locali hanno leve effettive per potere reperire entrate proprie attraverso, ad esempio, specifiche misure tributarie disegnate appositamente».  Ma, come è noto, il nostro federalismo è del tutto incompleto. «Il problema è che la riforma iniziata nel 2000 per garantire maggior efficienza agli enti locali e alle regioni è naufragata». C’è un ultimo elemento distorsivo che inficia l’azione del governo. «Gli interventi di finanza pubblica andrebbero effettuati in maniera complementare ad una seria politica industriale. Se il governo non ristruttura il tessuto produttivo italiano, saremo destinati a non produrre più valore aggiunto e a disporre sempre di meno risorse». 



 

(Paolo Nessi)

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