L’Europa non ha finora dimostrato di avere una politica unica abbastanza forte e coesa per affrontare la crisi. In aggiunta, o meglio, di conseguenza, le circostanze economiche e monetarie stanno facendo emergere una serie di preoccupanti contraddizioni. E allora che fare? Risolvere tutto smembrando l’Eurozona e chiamarci fuori dalla moneta unica? Si sta espandendo il “partito” di chi crede che questa sia la soluzione migliore, puntando tutto sulla “svalutazione competitiva”, così come succedeva nel nostro paese negli anni ‘80 e ‘90.



Per molti sarebbe la fine di un’agonia dalla quale difficilmente riusciremmo a riprenderci, perché l’Unione politica sembra irrealizzabile. E allora piuttosto di questa Unione a metà ben venga una scossa terrificante per la nostra economia, ben venga il restare da soli, come una “zattera nel Mediterraneo”, come scriveva qualcuno nei giorni scorsi. Inoltre, l’euro non ha privato della sovranità finanziaria i paesi che l’hanno adottato, ma ha soltanto dettato delle regole, considerate sbagliate. Queste regole, se non rispettate, prevedono come sanzione salatissime multe. Con un grande paradosso: se un Paese non riesce a finanziare il suo deficit, una multa salata non faciliterà di certo il cammino verso il risanamento.



Queste argomentazioni, che contengono concetti rispettabili e assolutamente da non trascurare, ma anche la provocazione fatta nei giorni scorsi da Silvio Berlusconi (“non credo sia una bestemmia l’ipotesi di uscire dall’euro”) non mi fanno cambiare idea rispetto alla mia opinione profondamente negativa su un’eventuale uscita del nostro e di altri paesi dalla moneta unica. “Dobbiamo andare con maggiore decisione nella direzione degli Stati uniti d’Europa e creare una banca centrale con veri poteri”. Tra tutte le voci che si sono alzate nei giorni scorsi, nel dibattito tra chi è pro o contro la moneta unica, credo che questa frase pronunciata ieri dal Presidente di Confindustria Giorgio Squinzi indichi la sola strada da seguire.



Prima di addentrarci nelle motivazioni economiche che comunque a mio avviso devono far pendere l’ago della bilancia in favore alla permanenza del nostro Paese nella moneta unica, è bene non dimenticarci che la debolezza dell’Euro va di pari passo con la debolezza dell’Europa politica, troppo spesso succube degli egoismi intergovernativi. Inoltre, l’euro risente in maniera enorme della debolezza, o meglio, dell’inadeguatezza della Banca centrale europea, che non svolge, per mandato, al contrario delle principali banche centrali del resto del mondo, una funzione di prestatore di ultima istanza.

Non è tornando alla lira che si salva l’Italia. Molto spesso i leader politici tendono a dimenticare i nostri annosi problemi: un debito pubblico che ben prima dell’euro, all’inizio degli anni Novanta, galoppava già verso il 120%; oltre due decenni di crescita molto lenta e di pressione fiscale molto forte; uno Stato sempre più vorace di risorse; una produttività in continuo calo. Rimaniamo ancora immersi in questi indicatori allarmanti, senza contare il centralismo, la burocrazia autoreferenziata, le corporazioni, i residui ideologici dell’apparato sindacale, la cultura protezionistica del sistema produttivo, le esasperanti lentezze della Pubblica amministrazione, i rigurgiti giustizialisti e moralistici che tendono a rinforzare le ondate populiste.

Chi vuole il bene dell’Italia prima di invocare il ritorno alla lira deve affrontare questi nodi apparentemente inestricabili. E i partiti non inseguano il populismo. Il Paese è ondivago, incerto, inquieto: c’è bisogno di politica alta, di leadership serie e responsabili, di programmi concreti e realistici. Il futuro ha bisogno di verità e di speranza, e i più responsabili si facciano carico di gestire con intelligenza una fase costituente di un’eccezionale complessità, ancora molto lunga.

Occorre determinare le condizioni per il rafforzamento dell’euro ponendo fine agli squilibri che esistono tra i paesi dell’eurozona. Per farlo bisogna essere forti nel rapporto con Germania e Francia e disponibili nel comprendere le difficoltà dei paesi più deboli. Un conto è quindi indicare nella figura del Cancelliere tedesco Angela Merkel un responsabile di questa crisi epocale – da molto tempo mi batto affinché l’Unione europea si emancipi dalle imposizioni di Berlino. Ma la soluzione a questo non può e non deve essere la fine della moneta unica.

Abbandonare l’euro sarebbe un modo per colpire ancor più duramente i poveri, ammazzare la classe media e arricchire chi è già ricco. Inoltre, come ha detto qualche tempo fa il Presidente della Commissione europea Barroso, “l’uscita dall’Euro avvelenerebbe in maniera molto pesante l’atmosfera per gli investitori, e così non ci sarebbero né crescita, né stimoli economici”. Uscire dall’euro insomma non è una bestemmia, ma è un’idea profondamente sbagliata. Il problema è essenzialmente quello di andare avanti. E non illudersi che fare marcia indietro ci permetta di risolvere anche una sola delle nostre contraddizioni.

La partita dell’euro ha senso all’interno di questa visione. L’euro, cioè, pur non avendo alle spalle un percorso lineare è frutto di una tensione all’integrazione irrinunciabile se vogliamo che anche i mercati premino l’Europa come soggetto politico. Apparire rinunciatari sulla moneta unica priverebbe quel progetto definitivamente della necessaria credibilità per poter reggere la scena globale. A quel punto ogni nazione europea sarebbe sola davanti alle sfide del mondo e della storia.

Certo, come è stato per secoli. E per secoli il modo di affrontare quelle sfide è stato il conflitto. I sessantadue anni di pace e di sviluppo dell’integrazione europea sono infatti l’eccezione, non la regola della storia dell’Europa. È bene che ce ne ricordiamo. Sempre.

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