Anche oggi si è confermato quel trend che, se non sarà invertito, ci metterà presto in ginocchio. Il Tesoro, infatti, ha collocato tutti i 9 miliardi di Bot semestrali. Ma il tasso d’interesse pagato è salito dal 2,104% del mese scorso al 2,96%. Dallo scorso dicembre, il rendimento è ai massimi livelli. Contestualmente, il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha messo nero su bianco la sua proposta per tagliare lo spread italiano. Ha ipotizzato la costituzione di un fondo pubblico del Tesoro, che dovrebbe emettere obbligazioni e che sarebbe garantito dai “gioielli” dello Stato: le riserve auree, gli immobili e le grandi aziende statali. Con i ricavi sarebbe possibile ricomprare, sul mercato secondario, parte del debito pubblico riducendo, così, la spesa relativa agli interessi da ripagare. E potremmo riottenere, dalle agenzie di rating, la tripla A. Claudio Borghi, editorialista de il Giornale e Professore di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università Cattolica, spiega a ilSussidiario.net perché l’idea non gli piace per niente: «Lo Stato è un debitore che non riceve più credito, a meno che non garantisca tassi esosi. Chi deve prestargli i soldi conosce bene la sua situazione, nonché l’ammontare dei suoi beni. Sa che dispone di immobili, riserve auree, aziende e via dicendo. Sostanze che, tuttavia, non rappresentano la garanzia che il debito sarà ripagato». In sostanza, agli investitori interessa unicamente una cosa: che i loro soldi tornino indietro. Per questo stesso motivo, a poco valgono le considerazioni anche circa il nostro debito privato. E’ virtuoso, si sa. Ma non per questo in grado di tamponare il rischio di insolvenza. «Immaginiamo il debito pubblico e quello privato come due coniugi in separazione dei beni. Il fallimento dell’uno non è legato a quello dell’altro. Non a caso, in Spagna, si è verificata una situazione speculare a quella dell’Italia: il debito pubblico era virtuoso, mentre i cittadini si sono, negli anni, fortemente indebitati. Come chiunque può vedere, la virtuosità dell’uno non ha certo impedito il tracollo dell’altro». L’idea del fondo va collocato in questo quadro di riferimento. «Di fatto, il bene posto a garanzia sarebbe ipotecato. Supponiamo, estremizzando il ragionamento, che la ricerca sia fruttuosa, che si riesca a vendere fisicamente i beni ipotecati fin da subito e si ricavino, per esempio, 500 miliardi con i quali ricomprare parte del debito pubblico. Ne restano pur sempre 1500. Che vanno ripagati. A quel punto, chi presterà mai dei soldi allo Stato sapendo che non esistono più nemmeno le garanzie del Fondo?».
Si determinerebbe un altro effetto perverso. «La vendita concreta dei beni messi a garanzia è la logica conseguenza dell’operazione. Poniamo il caso, invece, che quei beni, di fatto, non vengano alienati. A questo punto ci troveremmo con due debiti: il primo, quello nuovo, essendo garantito dai beni reali, avrà uno spread molto basso. Il secondo, quello vecchio, nei confronti del quale le garanzie dei beni reali erano considerate implicite, vedrà, invece, i propri rendimenti schizzare alle stelle. Rispetto ai titoli del Fondo, infatti, quelli classici diventeranno di serie B e non li vorrà più nessuno».
(Paolo Nessi)