Con l’introduzione dell’Imu c’erano due possibilità: che le tasse comunali aumentassero o che diminuissero; ovvero che, forti di una nuova entrata, i Comuni decidessero di mantenere l’aliquota dell’imposta sugli immobili a livello base se non, addirittura, di diminuirla fino a 0,2 punti percentuali, come la legge gli consente di fare. Ovviamente, si è optato per la prima scelta: mediamente, le aliquote sulla prima casa stabilite da quei Comuni che hanno emanato i decreti attuativi si attesta sullo 0,43% (quella base è allo 0,4), mentre quelle sulle seconde sono state rialzate del 25%. Come se non bastasse, un po’ ovunque, sono state ritoccate all’insù persino le addizionali Irpef, comunali e regionali. «Non solo: quasi dappertutto, le Provincie hanno portato la quota di competenza relativa alla assicurazioni auto al massimo», afferma, raggiunto da ilSussidiario.net Gianluigi Bizioli, docente di diritto tributario presso l’Università di Bergamo. Non c’è che dire: probabilmente, almeno sul fronte della tasse, peggio di così non poteva andare. «Questa situazione – spiega Bizioli – deriva dal fatto che, in questi anni, i tagli ai trasferimenti sono stati decisamente consistenti. Nel solo 2011 sono ammontati a circa 6 miliardi di euro. I Comuni si sono trovati nelle condizioni di non poter fare altro che tagliare a loro volta e aumentare tutte le imposte di loro competenza».



Oltretutto, alcuni fattori aggravano ulteriormente il quadro. «Mentre i tagli ai trasferimenti sono immediati, non  lo è altrettanto la riduzione della spesa pubblica comunale. Alcuni capitoli di bilancio, come il personale, non sono riducibili mentre altri, laddove ridotti, producono effetti solamente nel tempo. Non si dimentichi, inoltre,  che i Comuni sopra i 5mila abitanti sono obbligati  a rispettare il Patto di stabilità. Per cui pur essendo, magari, virtuosi, non possono utilizzare i propri avanzi».



L’Imu dal canto suo, nasce, come entità zoppa. «Il più grande errore del Decreto Salva Italia è consistito nel dividerla in due. Metà del gettito, infatti, entrerà nelle casse comunali mentre l’altra metà andrà allo Stato. Resta il fatto che l’Imu introdotta è ancora in fase sperimentale e nel 2014 dovrebbe poter diventare un’imposta interamente comunale. Sempre che, per allora, sia terminata l’emergenza». Va detto che, volendo, ci sarebbero i margini per poter intervenire già ora. «Nel decreto sul federalismo fiscale – continua Bizioli – è previsto che il finanziamento ai Comuni avvenga anche attraverso la compartecipazione a determinati tributi statali relativamente agli immobili siti nel territorio, quali l’imposta di registro, le imposte catastali o parte della cedolare secca. Lo Stato incassa tali tributi e li trasferisce al Comune. Le compartecipazioni, che sono una forma di finanza derivata, si sarebbero potute diminuire per lasciare integralmente l’Imu sulla prima e la seconda casa alle amministrazioni comunali».



Sembra che, per il momento, il federalismo fiscale, per il cittadino stia solamente rappresentando un costo ulteriore. «Questo era insito nelle premesse – dice Bizioli -. Va da sé, infatti, che nel momento in cui si tagliano i trasferimenti e si concede ai Comuni libertà di manovra, inevitabilmente questi tendono a incrementare la tassazione. Il federalismo a pressione fiscale invariata era fin dall’inizio un’utopia. Si sapeva che la logica in base alla quale gli enti avrebbero potuto incidere sulla potestà avrebbe sortito questi effetti».

 

(Paolo Nessi)