A giudicare dall’andamento dei listini si può dire che ieri, a meno di due settimane dalle elezioni in Grecia e a soli sette giorni dal verdetto del Fondo monetario internazionale sullo stato delle banche spagnole, i mercati hanno provato a essere ottimisti. La tenuta delle Borse e quella, non meno significativa, dell’euro (oggetto nelle ultime settimane di forti vendite da parte delle banche centrali dei Paesi emergenti), dimostrano infatti che: a) si spera che ad Atene, così come è successo a Dublino, prevalga la ragione; b) che l’intenso lavorio ufficiale e ufficioso dei maggiorenti d’Europa (e non solo) produca risultati concreti da sottoporre all’esame del vertice europeo del 28 giugno.



C’è da sposare l’ottimismo della ragione? A giudicare dai precedenti, dicono i pessimisti, non è il caso di nutrire grosse speranze. Certo, non è da escludere una dichiarazione di principi piuttosto che un accordo più concreto e impegnativo, che preveda un’unione bancaria con garanzie comuni sui depositi. La Germania, secondo le voci sempre più dettagliate in arrivo dalle capitali europee, potrebbe aprire a questa soluzione, a patto che si adottino strumenti che accelerino l’integrazione politica ed economica, come condizione per adottare strumenti comuni, non solo in materia di banche. Fra le ipotesi circolate c’è quella di creare un’autorità centrale europea per la gestione delle finanze e maggiori poteri per la Commissione, il Parlamento e la Corte di giustizia europea. 



Belle cose, sostengono gli scettici, ma al solito il diavolo si nasconde nei dettagli. Il rischio è di dar vita a un programma ambizioso, destinato però ad arenarsi al momento di fissare le regole o di superare gli ostacoli in seno ai vari Parlamenti nazionali. Davvero si può pensare che a pochi mesi dall’avvio della campagna elettorale tedesca Angela Merkel voglia dare una svolta alla sua politica?

La risposta, replicano i pessimisti, sta nell’andamento della Borsa di Francoforte, la peggiore dell’eurozona nelle ultime sedute. A dimostrazione che qualcosa si è inceppato nei meccanismi di gioco della panzer nazione d’Europa.



Innanzitutto, il rallentamento della locomotiva cinese pone grossi problemi alla formidabile macchina produttiva d’oltre Reno. Prendiamo l’esempio della Volkswagen. Il colosso dell’industria a quattro ruote, lanciato alla conquista del primato assoluto mondiale, ormai controlla un quarto del mercato europeo, così come un quarto del mercato cinese. Ma con una differenza: in Cina la redditività è molto elevata (almeno il 7%); in Europa, secondo le accuse di Peugeot, il gruppo di Wolfsburg pratica una politica dei prezzi molto aggressiva, al limite del dumping erodendo spazi ad altri competitor che non solo non dispongono di questa carta, ma devono giocare con un forte handicap legato alla turbolenza della finanza che avvantaggia il sistema tedesco rispetto a chi, per esempio, deve farsi finanziare in Italia, a tassi ben più elevati. La frenata della domanda cinese rischia di mettere in crisi questo circolo virtuoso (per loro). Anche perché il malessere dei clienti dell’eurozona minaccia di tornare indietro come un boomerang assai pericoloso nei quartieri generali dell’industria e della finanza teutonica.

Un’iniezione di “buonismo” tedesco, in apparente contraddizione con l’inflessibilità dimostrata finora da Angela Merkel e dalla Bundesbank, può poi trovare spiegazione negli enormi crediti che la banca centrale di Francoforte ha accumulato nei confronti dell’eurozona: circa mille miliardi, a un passo dal tetto previsto dal Target 2. Le cose non vanno meglio se si valutano i crediti dei privati. Non esiste esportatore tedesco che non vanti grossi crediti verso altri paesi dell’eurozona, a partire dal Sud Europa: il collasso bancario spagnolo, in particolare, potrebbe creare grossi problemi alle banche tedesche, assai esposte tra l’altro nel mattone di Madrid e dintorni.

Insomma, anche dalle parti di Berlino si comincia a capire quel che John Maynard Keynes, in difesa della Germania sconfitta, aveva invano tentato di spiegare alle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale: il debito non è il segnale di una punizione divina, semmai il frutto di un’attività congiunta di creditori e debitori che assieme devono intervenire per colmare i “buchi”.

Per necessità, più che per volontà, concludono gli ottimisti, Berlino deve voltar pagina. Con cinque anni di ritardo. Il peccato originale, infatti, risale ai tempi del tracollo di Lehman Brothers, quando la Grecia sembrava ancora un’isola felice o quasi. Fu allora che la Germania disse no a un’iniziativa congiunta dell’Europa per fronteggiare la crisi legata al default della banca americana. Ogni Stato, sillabò in videoconferenza la Merkel, deve fare da solo. Fu un grosso errore, il primo segnale alla speculazione che si poteva andare all’assalto dell’eurozona a partire dai partner più deboli.

Questa politica suicida, che ha consentito guadagni favolosi alla finanza ombra che dispone di cds con cui manovra gli spread senza nemmeno muovere cifre sensazionali, ha portato l’Europa a un punto di quasi non ritorno. Sotto lo stress crescente i politici del Vecchio Continente hanno dato spesso pessima prova di sé: ultimo caso l’ostinazione spagnola a negare fino all’ultimo l’evidenza della crisi bancaria per non dover ricorrere all’aiuto dell’Ue vissuto come un cedimento alla Germania.

Oggi, forse, si volta pagina. C’è ancora tempo, purché i governi (e l’opinione pubblica) di tutta Europa sappiano fare un passo indietro. Tocca ai tedeschi, ma non solo. Tocca ai politici, ma non solo. Tutto sommato, pur con tutta l’ostilità che circonda l“impero tedesco”, come non ha esitato a definirlo George Soros, non sarebbe poi così male se il Vecchio Continente imitasse certi costumi teutonici, come dimostra lo stato dell’arte del football, al solito metafora efficace dello stato delle nazioni: l’Italia percorsa periodicamente da scandali e governata da dirigenti mediocri e imbelli; la Spagna che ha costruito, accanto a musei scintillanti (vedi la città della scienza di Valencia) due “invincibili armate”, Real Madrid e Barcellona a suon di debiti senza copertura; il Regno Unito, terreno di caccia e di shopping di autocrati russi e di emiri mediorientali che fanno rotta anche verso Parigi. Poi c’è la Germania, competitiva ma con bilanci solidi. Un esempio da meditare in vista dei veri campionati d’Europa, quelli che a fine giugno dovranno stabilire se è possibile sperare in un futuro condiviso e pacifico tra i popoli del Vecchio Continente.

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