“Cavalcare la tigre” è un’espressione cinese che ha ispirato più di un pensatore occidentale. È il titolo, ad esempio, di alcune meditazioni che il filosofo Julius Evola affidò alle stampe nel 1961. Il proverbio intero recita: “Qi hu nan xia”, per chi cavalca la tigre, il difficile è smontare. Recentemente, la metafora della tigre è balzata agli onori delle cronache quando Peter Coy, analista Bloomberg, ha utilizzato questa e altre immagini poco edificanti in apertura di un’inchiesta dedicata alla crisi cinese. Perché, nonostante le fonti ufficiali parlino di “rallentamento della crescita” e “crescita sostenibile”, di vera e propria crisi si tratta. E il difficile, per la dirigenza cinese che da decenni cavalca il boom del Dragone, adesso sarà scendere.



Perché sia lecito parlare di crisi, lo rivela un piccolo numero. È il dato di inflazione pubblicato alcune settimane fa e giudicato da molti osservatori indipendenti come attendibile. A fine aprile l’indice dei prezzi al consumo si è fermato al 3,4% su base annua, per la prima volta in linea con l’obiettivo governativo di contenere l’inflazione sotto il tetto del 4%. Eppure dalle parti di Pechino nessuno ha festeggiato: anzi, si direbbe che la linea del rigore abbia proiettato sull’economia cinese inquietanti scenari ellenici.



Il numero di suicidi tra gli imprenditori nella città di Wenzhou ha raggiunto livelli tali da spingere il premier cinese Wen Jiabao a una visita di controllo in veste ufficiale. Da qui il primo ministro ha annunciato un piano per facilitare il credito alle imprese e rilanciare la crescita dell’economia locale. Come? Nuovi finanziamenti dedicati esclusivamente alle Pmi e licenza ai privati di scambiare azioni non quotate. Ma la parte più interessante del piano arriva leggendo le motivazioni all’origine dell’apertura. Riprendendo un’analisi pubblicata dalla sede di Wenzhou della banca centrale cinese, il programma dichiara che in un contesto di crisi globale né l’export verso l’Europa, né la domanda interna riescono a sostenere l’enorme produzione locale. E, secondo un’analisi di China Merchants Securities, “quello a cui assistiamo a Wenzhou, non è un caso isolato”. Le notizie pubblicate alcuni giorni fa dalla banca centrale cinese confermano questa dichiarazione: gli investimenti industriali a medio-termine sono scesi del 46% su base annuale, mentre il numero di crediti in sofferenza è cresciuto di un terzo dall’inizio del 2012.



A complicare la situazione sono arrivate quelle materie prime di cui il Dragone sembrava avere un appetito insaziabile. Secondo il Financial Times, da lunedì 21 maggio un’onda di default ha investito le consegne di materie prime in Cina. Citando dati di due grandi commodity house (che hanno preferito restare anonime), il quotidiano della city rivela che un numero crescente di acquirenti cinesi non riesce a onorare gli ordini di materie prime concordati con settimane di anticipo. Carbone e acciaio sono le materie più colpite, con un crollo dei prezzi mondiali rispettivamente del 5% e del 9%.

Tra gli analisti, c’è chi parla ormai apertamente di recessione. Tra questi, Charles Biderman di TrimTabs che senza mezzi termini dichiara: “La prossima crisi arriverà dalla Cina”. Altri analisti si spingono fino a dubitare delle statistiche ufficiali e sottolineano l’incoerenza tra i dati (ancora positivi) del Pil cinese e altri numeri più difficilmente manipolabili. Oltre ai crediti in sofferenza e ai default sulle consegne di materie prime, altri segnali di crisi arrivano dal crollo nel consumo di elettricità e dai volumi di merci trasportati su gomma e rotaia, entrambi in discesa libera.

La risposta di Pechino non si è fatta attendere. Mercoledì 23 maggio il Consiglio di Stato ha annunciato un piano di crescita in tre punti che deve aver fatto impallidire gli economisti di fede rigorista schierati da Berlino a Francoforte e Bruxelles. Primo punto: taglio delle tasse alle imprese. Secondo punto: progetti infrastrutturali da finanziare attraverso emissione di nuovo debito pubblico. Stando ai primi annunci, le obbligazioni saranno finalizzate a investimenti in ferrovie, strade e centrali energetiche con un’attenzione particolare alle aree rurali. L’offerta circolare non è ancora pubblica, ma si ha l’impressione che sostituendo la faccia di Mao con quella dell’onorevole Tremonti, i titoli sembrerebbero dei veri e propri eurobond.

Il terzo punto è forse quello più emblematico. Il governo di Pechino ha inserito nel piano di crescita rigide norme in materia di edilizia e compravendite immobiliari. Le motivazioni ufficiali citano il rischio di cementificazione e puntano il dito contro fantomatici speculatori immobiliari, nel tentativo malcelato di indicare un capro espiatorio all’esorbitante bolla che piaga il mercato del mattone cinese. Più realisticamente, il comitato centrale punta a evitare l’implosione del prezzo degli immobili riducendo al lumicino le transazioni.

Ancora una volta, la speranza è di risolvere un problema negandone l’esistenza per decreto legge. Ma per scendere dalla tigre, non basterà un piano quinquennale.